venerdì 18 gennaio 2013

Where are we now?

L'8 gennaio è stato il sessantaseiesimo compleanno di David Bowie.
La tentazione di tributare un omaggio era francamente irresistibile. Anzi, talmente forte da tramutarsi nel suo opposto: obbligo morale.
Se però il cuore traboccava di ghirlande filologiche e turiboli critici con cui accostarsi all'altare in madreperla dell'intatto idolo, la mente frenava il devoto palpito sulla soglia del tempio, obliterando la cerimonia con l'arida innegabilità del calcolo razionale.
All'entrata del Sancta Sanctorum su ogni critico incombe la mannaia del rischio più minaccioso: la noia del catalogo museale.

Avevo, dunque, già con tormento riposto i paramenti liturgici quando...
Hallelujah!
Con un colpo di teatro all'altezza del suo leggendario carisma, Godot è apparso, in tutto il suo stordente splendore, pubblicando a sorpresa un nuovo brano, "Where are we now", che addirittura preannuncia l'uscito di un nuovo disco, "The next day", per il prossimo marzo.
Nel 2003 intervistato dal suo grande fan Jonathan Ross, che notava sorpreso come il suo nuovo disco ("Reality") sorprendentemente seguisse il precedente ("Heathen") appena dopo un anno, Bowie, nel suo amabile humour, rispose: "Si, il prossimo uscirà fra 5 settimane...". Sono passati 10 anni.

Un nuovo disco dopo 10 anni di silenzio praticamente assoluto.
Questo di per sé è un evento.

Come avrebbe detto il buon vecchio Gianni Brera: in alto i canti e le bandiere per il Duca Bianco.
Ma c'è già chi non vuole festeggiare.
Non mi riferisco alle lamentazioni geriatriche di Mario Luzzato Fegiz sul "Corriere della Sera" (peraltro perfettamente coetaneo di Bowie, c'è di che riflettere)...del resto, in prima fila a guidare le celebrazioni c'è Lady Gaga...meglio stare con l'arcigno critico moraleggiante
Parlo della reazione fredda o delusa di alcuni fan sui social network.

Ho deciso di pubblicare con una settimana abbondante di ritardo, per evitare giudizi dettati da reazioni emotive.


Diciamolo subito: al primo ascolto mi sono emozionato.
 Non certo per l'ingenua acriticità del fan assetato da dieci anni di siccità, il quale, ormai rassegnato a trascinare nel deserto le reliquie di glorie passate, si ritrova a danzare ebbro di gioia alle prime gocce che cadono dal cielo avaro, purché siano appena potabili.
Non sono fatto così.
Come tutti i sacerdoti d'un culto, la mia priorità è difendere l'ortodossia.
 Le precedenti uscite di Bowie avevano destato certo interesse, stimoli, suggestioni, ma anche molte perplessità.
Non molte emozioni.
Stavolta è diverso. Ancora al ventiquattresimo ascolto (svanito ormai l'effetto sorpresa) l'emozione rimane. Potente e autentica.
E non è certo la voce impostata sul rimpianto straziante, o il tono minore degli accordi a generare commozione. In pochi versi, Bowie, come poche volte prima, espone l'anima nuda nello smarrimento esistenziale, senza maschere, senza travestimenti, senza il conforto del grande gesto estetico a velare le ferite interiori. Ed è ovviamente toccante intuizione, oltre che prodigio d'introspezione, il richiamo a Berlino, a quella Berlino, capitale magica per ogni fan di Bowie, culla creativa della rinascita straordinaria di fine anni '70.

C'è chi potrebbe accusare il ritornello di essere oggettivamente debole, con le sue ripetizioni facili facili ("The moment you know, you know you know")
Ma in realtà è proprio nei suoi capolavori minimali della trilogia berlinese, che Bowie giunse al culmine del suo percorso alchemico sulla forma canzone pop: nell'apice della ricerca sperimentale ha trovato la chiave del segreto per la conquista trionfale del mainstream, pochi anni dopo.
Mi spiego meglio.
E' anche giocando su le ripetizione di "You" e "I" che si è raggiunta l'epica essenzialità di "Heroes".
Gli anni di Berlino sono, come tutti sanno, non sono solo quelli della magnifica trilogia
( "Low", "Heroes" e "Lodger") ma sono anche quelli della resurrezione di Iggy Pop, di cui il Nostro co-scrive e produce le due gemme di delirio, "The Idiot" e "Lust for life", i cui bagliori luciferini ancora illuminano le performance dell'Iguana come vette intramontabili.
Ora, non tutti ricorderanno che il repertorio del Bowie inizi anni'80, del Bowie idolo romantico delle folle, che si contendeva con Lady Diana le prime pagine dei giornali, che duettava in giacca e cravatta con Tina Turner...ebbene quel repertorio proveniva dalle oscurità subconscie del garage ermetico berlinese.
Gli stessi versi sussurati dal Bowie compassato che scalava le classifiche, erano quelli pochi anni prima urlati come un animale torturato dall'Iggy post-rehab.
L'oltraggio della controcultura diventa ritornello canticchiato da tutti sotto la doccia.
Questo è genio (torniamo a Baudelaire, "creare luogo comune è genio").
 Una delle chiavi del genio bowieano è proprio nel estendere all'infinito la tensione romantica (attraverso una teatralità eccessiva, quasi dannunziana) per poi discioglierla con sofisticata ironia in una imponderabile ambiguità.
Una sorta di versione pop della "sospensione del tragico" di Carmelo Bene.
Ad esempio, qui lo troviamo come un attore alla Bogart ("and i felt like an actor", potrebbe essere messo in calce ad ogni sua esibizione dal vivo), in un vertice di commozione romantica pura (1.22), che si svela "parodia della vita interiore" (come appunto si disse di "Nostra Signora dei Turchi"), spazzata via dalla folle ironia di "TAKE ME TO THE DOCTOR!"






Stavolta, invece, niente giochi, niente infingimenti.
Un cosmo di riferimenti, di autocitazioni, di gloriose memorie, dissolto in un purissimo dolore esistenziale.
  E' per questo motivo che "Where are we now" è un brano insieme intelligentissimo, elaboratissimo e commovente, pur essendo all'apparenza banale.



Ora, non intendo fare l'avvocato di uno degli artisti più venerati del pianeta.
Preferisco invece approfondire una questione estetica che riaffiora ogni qual volta una vetusta autorità (non solo nel rock) scende dal pantheon per rigettarsi nella polvere bruciante dell'agone artistico.
Come già ho fatto nel breve passato di questo blog, porrò come pietra di paragone per guidare la riflessione, l'icona più enigmatica, prima dello stesso Bowie, della cultura pop contemporanea: Bob Dylan.

Chiarisco, non lo faccio perché Dylan è per me il più grande artista popolare del Novecento.
Lo faccio, perché egli E' (è stato e sarà) la pietra di paragone, l'esempio, l'antesignano, il modello, il padre da uccidere, la vetta da raggiungere e, se possibile, da superare, per tutti i grandi mostri sacri, Bowie incluso.
Egli è letteralmente il mito dei miti, la leggenda delle leggende, l'idolo degli idoli (e lui che ama così tanto il Vecchio Testamento e, in esso, il Cantico dei Cantici riconoscerebbe l'eco cabalistica di tali iperboli).
Non lo dico io, lo dicono, o lo hanno detto, loro:  Lennon ("Dylan mostra la strada"), Mc Cartney e tutti i  Beatles, gli Stones con i loro ripetuti omaggi fin dalle copertine dei loro dischi storici, Hendrix con la sua venerazione espressa in numerose cover (non solo "All along the Watchtower"),  Springsteen che in questo discorso gli elenca tutti meglio di me, facendo risparmiare a me e a voi un sacco di tempo prezioso...
Ed è per questo che per me è il più grande artista popolare del Novecento.

Dylan é l'archetipo della rockstar, semplicemente perché é stata la prima, almeno in senso moderno.
 Il primo a essere protagonista di un documentario, il primo a essere oggetto di una attenzione maniacale dei fan e ossessiva dei media (non parlo delle fan starnazzanti per i Fab Four, parlo di Alan Weberman che con lui inaugura il costume apice del voyeurismo da fandom, rovistare nella spazzatura dei divi), il primo ad avere la libertà artistica di fare un disco doppio, con una traccia che copriva un'intera facciata...il primo a divenire non solo un idolo pop (come Elvis),  o un fenomeno di costume (come i Beatles) ma un simbolo culturale, a dare alta dignità artistica e intellettuale a quelle che erano considerate canzonette...a portare la "poesia nei juke-box", secondo la celebre definizione di Allen Ginsberg.


Il rapporto tra Bowie e Dylan è complesso e fecondo, come il dialogo tra due enormi personalità artistiche logicamente prevederebbe. E non parlo del famoso primo incontro (che smentì il verso "Though i don't suppose we meet" nel brano di "Hunky Dory") riportato nell'infausta intervista del 1976, in cui l'ipertrofia cocainomane di Bowie si scontrava col silenzio della Sfinge dylaniana.
Sono gli artisti che (assieme al loro amico comune, per uno maestro per l'altro allievo, Lou Reed) hanno incarnato enigmaticamente la trasformazione alchemica, l'incessante divenire artistico, la lotta del genio contro la mediocrità.
Bowie nel clamore quasi programmatico ("Ch-ch-ch changes!") dei capovolgimenti di stile, del gioco delle identità, insieme Fregoli e Amleto dei generi e non solo dei travestimenti.  
Dylan, meno spettacolarmente, ma piu' interiormente, cantore costantemente in cammino, arso nella ricerca, perennemente al bivio di ogni percorso mistico, viandante e bagatto, toccato dalla grazia del volo poetico e al contempo incatenato al peso della sua stessa dolente sapienza. Entrambi albatri baudeleriani, le cui ali da gigante hanno divelto le reti della ciurma giornalistica a colpi di capolavori e provocazioni.
Entrambi hanno sofferto nelle loro carni il loro ineluttabile e irreparabile divenire icona.

E' interessante notare, in due personalità così grandi e così diverse, praticamente la stessa reazione, uguale e contraria, alle invariabili etichettature mediatiche che negli anni li hanno claustrofobicamente accerchiati: qui Bowie (4.22), qui Dylan.

In entrambi agisce (come ebbe a dire Battiato parlando di Dylan) una potenza mantrica.
Non solo nei confronti dei loro ascoltatori (sempre citando Bowie nell'omaggio a Dylan: "His words of truthful vengeance/They could pin us to the floor" e ancora "And you sat behind a million pair of eyes
And told them how they saw") ma anche e soprattutto nei confronti di sè stessi.
E' come se il potere evocatore del genio poetico chiedesse, nelle carni stesse dell'artista, il dazio per aver estratto oro dal fango del caos interiore.
Bowie, che si faceva ritrarre mentre scimmiottava quel pericoloso cialtrone di Crowley, comprenderebbe bene quello che sto tentando di dire.
Con suprema e spiazzante ironia esistenziale (sigillo dell'attenzione degli Dèi),  il karma inchiodò il Duca Bianco, ben prima del suo battesimo da novello alter-ego, alla mostruosa incontrollabilità del proprio mito.
Si ritrovò a fare i conti con platee oceaniche che gli rinfacciavano beffarde lo stesso interrogativo da lui posto a Dylan nel suo inno da fan tradito: "Now hear this Mr.Bowie...ask your good friend Ziggy/ If he'd gaze a while/ Down the old street". Ma ben altro inquietante prodigio avvenne.
Il  Bowie scheletrico, solo e tremante nella lussuosissima casa di Los Angeles, posseduto dalla cocaina e dalla paranoia per la magia nera (custodiva la pipì nel frigo perchè temeva che Jimmy Page, un altro che pagò caro la seduzione crowleyana, la usasse per rubargli l'anima in riti di magia nera),  quel Bowie carnefice di sè stesso, alienato più che alieno, travolto dalla sua fama, divenne l'incarnazione spettrale, l'incubo realizzato dell'epitaffio di Ziggy Stardust: "Making love with his ego, Ziggy sucked up into his mind".
Come già detto di F.Scott Fitzgerald, Bowie divenne posseduto dagli incubi che egli stesso aveva liberato.
E fu solo Berlino porta di salvezza, rivelandosi  un mastodontico forno alchemico a cielo aperto, dove rinascere nel miracolo dell'ennesima trasformazione.

Concludendo il discorso da dove avevamo iniziato, non possiamo pretendere che il "nuovo" pezzo di artisti così irriducibilmente iconici, possa avere la freschezza, l'impatto e la potenza rivoluzionaria dei loro capolavori di 40 o 50 anni fa.
Non si può ri-ottenere l'effetto devastante di "Like a rolling stone" o di "Ziggy Stardust", dopo averle scritte.
Non per mancanza d'ispirazione. Dico sempre che dal sottovalutatissimo Dylan "in crisi" degli anni '80 si potrebbe estrarre un greatest hit da far invidia a tanti cantautori lodati a sproposito.
Il motivo è semplice: non si può non fare i conti con la propria grandezza.
Avendo creato, di fatto, una nuova epoca, un nuovo linguaggio, Bowie e Dylan, mutatis mutandi, diventano i T.S.Eliot di sè stessi, cercando nella "Terra Desolata" della loro anima e della loro opera i frammenti con cui puntellare le proprie rovine.
L'aveva già capito Bowie estraendo dieci anni dopo un nuovo classico, "Ashes to Ashes", dallo spin-off  del suo battesimo incandescente, "Space Oddity".
Ha poi alluso al gioco costantemente, fino ad esplicitarlo in "The pretty things are going to hell".
La gioventù fiera e oltraggiosa che doveva annunciare il Superuomo nietzscheano ormai se n'è andata all'inferno.
E così Dylan, lontano dalle smancerie borghesi e furbastre di Mc Cartney che porta il cane a fare la pipì sulle strisce pedonali di "Abbey Road" (per i complottisti  confessione in codice della sua morte), ha lottato con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso.
Ha così rovesciato nel disincanto e nell'amara ironia gli inni immortali, per scardinare la prigione in cui il suo stesso altare si era trasformato: dal furore profetico di "The times they are a-changin'" si passa al sarcastico cinismo di "Things have changed", dal canto abusatissimo di "Knockin' on Heaven's door" al passo trascinato dello stanco vagabondo spirituale in "Tryin' to get to Heaven".

Ci aspettiamo molto da "The next day".
Speriamo che il Duca sia di parola, come lo è stato il Maestro con l'ultimo album "Tempest".
Di questo e di altro, parleremo prossimamente.




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