sabato 31 maggio 2014

Tutti gli articoli di Maggio



Cari lettori,
il gradito moltiplicarsi di impegni di varia natura (giornalistici e letterari, che si aggiungono al tedioso impiego quotidiano e all'organizzazione di eventi di volontariato internazionale, che mantiene la priorità) non mi ha consentito questo mese di proporvi i consueti backstage degli articoli pubblicati su altre testate.
Alcuni affezionati tra i miei venticinque lettori mi hanno chiesto di farne una lista mensile.
Ecco quindi un comodo riepilogo, con un breve cenno introduttivo per ogni articolo indicato.

Iniziamo con quelli pubblicati su FUMETTOLOGICA:

- Abbiamo raccontato QUI il primo evento pubblico di Skeleton Monster, un collettivo di autori che stiamo seguendo con grande interesse, e di cui parleremo ancora molto presto;



- Abbiamo intervistato QUI LRNZ su The Dark Side of the Sun, nobile progetto cinematografico di cui ci ha raccontato l'avventurosa genesi e la rocambolesca realizzazione;

- Abbiamo incontrato a Napoli Stephen Collins, autore per Bao de La gigantesca barba nera malvagia, il libro che forse ci ha più colpito delle nuove uscite editoriali proposte al Comicon: colto, cortese, col tipico aplomb britannico, ci ha dato l'impressione di intervistare Morrisey. 
QUI affrontiamo con lui temi e intuizioni che presto sviscereremo in un approfondimento critico ad hoc;

- Abbiamo avuto il grande piacere di conversare con Dave McKean, autore straordinario, il cui carisma  magnetico ci ha colpito nonostante il bonario aspetto di un affabile signore di mezza età. 
QUI la nostra chiacchierata;



- Abbiamo avuto l'onore di presentare l'inaugurazione dell'opera di Mabel Morri nella Chiesa di San Martino in Riparotta. Presto vi presenteremo un più approfondito reportage dell'evento. QUI una breve intervista all'autrice; 

- Per #tavolidadisegno abbiamo finalmente pubblicato l'intervista a Stefano Simeone, che è in realtà un patchwork di varie conversazioni svolte lungo l'arco di un anno e mezzo. QUI potete finalmente consultare questo Frankestein giornalistico!; 

- Come ultimo articolo vi proponiamo un'anteprima del prossimo numero di Orfani, alcune potenti tavole di Werther Dell'Edera, il quale, fedele al nome letterario, riesce a citare in tre righe i nostri autori preferiti, nella breve conversazione che trovate QUI;



Per LINKIESTA abbiamo recensito il volume di Rizzoli Lizard PIL di Mari Yamazaki, libro che non ci ha esaltato dal punto di vista grafico, ma che ci ha conquistato per la sottile intelligenza che lo pervade nello smascherare la falsa ribellione che informa il mainstream contemporaneo. La trovate QUI;

Per il blog, invece, da un lato abbiamo parlato di alcuni autori della Tunué, casa editrice che ci ha gentilmente ospitato al Comicon di Napoli.
Si tratta, in alcuni casi, di libri che non avremmo mai accostato seguendo le nostre predilezioni, è stata dunque una felice occasione quella di poter incontrare diversi autori, scoprendo la ricchezza della loro ispirazione.

In ordine abbiamo trattato di:



- Tony Sandoval e del suo Watersnakes, affrontando il divertente paradosso della sua giovalità contrapposta alla macabra oscurità delle sue storie (QUI);

- Mathieu Reynès e Valerie Vernay e il loro La memoria dell'acqua, riuscita variazione su temi tradizionali, libro di grande impatto e fascino, tali da conquistare anche un autore colto e autorevole come Igort (QUI);



- Daniele Gud Bonomo e il suo Tutti possono fare fumetti (QUI): abbiamo in cantiere un reportage su una toccante esperienza vissuta insieme a Grosseto, grazie a Michele Scuffiotti;

- Abbiamo trattato de La principessa che amava i film horror, sia QUI con le nostre impressioni che QUI, dove ne abbiamo parlato con l'autore Alessio De Santa;

- Abbiamo trattato di E tutto il resto appresso, conversando sia con gli autori Alessandro e Francesca Di Virgilio che col disegnatore Mauro Cao (QUI e QUI);

- Abbiamo poi QUI offerto le nostre personali considerazioni su The Dark Side of the Sun, progetto che abbiamo seguito da anni, conoscendo l'enorme lavoro svolto da LRNZ e dal suo staff; 

- Abbiamo ospitato volentieri le riflessioni di Dario Di Napoli sulla finale di Champions League, che sottoscriviamo, al di là dei colori calcistici (la trovate QUI)



- Abbiamo omaggiato uno dei film più belli degli ultimi anni, Gran Budapest Hotel, l'ultimo gioiello di Wes Anderson. Ecco QUI

Confidiamo che in questo vasto menu qualcosa sarà di vostro gradimento.
Buona Lettura.




giovedì 29 maggio 2014

Grand Budapest Hotel è una meraviglia assoluta: almeno 6 motivi profondi



A Marco Morgantini

Quando ho pensato di scrivere questo articolo non sapevo che uno dal titolo molto simile era stato già pubblicato (lo trovate in due parti QUI e QUI)
Fa nulla, visto che le motivazioni sono dissimili, essendo quello un articolo, pur gradevolissimo, promozionale e non critico.

Alla prima visione di Grand Budapest Hotel ho presto raggiunto uno stato di silente beatitudine estetica, in cui oltre alla delizia visuale riconoscevo in me sintomi di un'autentica commozione.
Ho ritenuto, dunque, d'esser preda d'un rapimento intellettuale così seducente da impedirmi di poter scrivere una riga che fosse equilibrata sul film.
Approfittando di una improvvisa benedetta promozione che mi ha consentito di vedere e rivedere il film in oggetto più volte in lingua originale, ho potuto temprare al fuoco della riflessione critica il mio innamoramento iniziale. E posso dire ora, senza tema d'apparire stucchevole, che si tratta di un'opera meravigliosa

Perché è presto detto.

1) Non cade nella trappola del manierismo

Come nel caso di Quentin Tarantino (su cui ora non ci soffermeremo), quando un regista diviene di culto per la sua fortissima personalità autoriale e la presenza ricorrente di elementi totemici nei suoi film, ad ogni fotogramma, se intellettualmente onesto, si ritrova a compiere spettacolari acrobazie per evitare di cadere nella più insidiosa delle trappole: il baratro del manierismo.
Wes Anderson vince la sfida, ed anzi al termine della pericolosa passeggiata sul filo compie un salto mortale e ricade in equilibrio facendo l'inchino allo spettatore: la brillante costruzione a matrioska della narrazione, la scelta di giocare sull'eccesso delle proprie ossessioni (pur incastonate in un costante controllatissimo equilibrio formale) e un ricchissimo sottotesto di citazioni e rimandi interni.



Un parallelo (apparentemente peregrino, ma illuminante per svelare l'approccio autoriale) sorge spontaneo nella sua bizzarria: cosa vi ricorda il film di un regista maniacale ambientato in un albergo, in un panorama innevato? Ovviamente, temi, visione e ispirazione non c'entrano nulla con Shining, ma essendo questo uno dei film più matematicamente perfetti della storia del cinema, ritengo interessante evidenziarne le principali differenze. Entrambi film sulla solitudine, una che conduce alla pazzia e alla distruzione della famiglia e dell'amore, l'altra che invece riconcilia nella trasfigurazione della memoria poetica proprio l'amor perduto e una famiglia distrutta; uno popolato di fantasmi demoniaci, comparse di una mondanità satanica e vendicativa; l'altro animato da una grande orchestra di personaggi amabili , ciascuno indimenticabile, nella grande danza di un'orgia cromatica (la vividezza esasperata del ricordo idealizzato). E' interessante notare che, se il marchio registico dello sguardo kubrickiano sono le celebri soggettive, Anderson ci mostra sempre la realtà di lato, una sezione architettonica laterale e proprio per questo completa. Le sue costanti simmetrie non sono figlie della "fearful symmetry", di blakeana memoria, come quelle di Kubrick. Al contrario, sono la cornice estetica, del sogno e del ricordo, in cui provare a redimere nella grazia del racconto il dolore incontrollabile che erompe assurdo nell'esistenza.
 Un apparente distacco, che malcela l'identificazione con i propri personaggi.
Invece che l'io disperato della prima persona di Dostoevskij, Anderson gioca con la confessione in terza persona come Flaubert.
Ci ritorneremo alla fine.



2) Summa e variazione dei grandi temi di Anderson

Il dono di un equilibrio aggraziato, abbiamo detto, fa sfuggire la pellicola al rischio del manierismo.
Ciò nonostante ritroviamo, porti allo spettatore con una maturità registica ormai definitiva, tutti i tòpoi peculiari e memorabili del cinema di Anderson: la precisione ossessiva del dettaglio estetico, spesso omaggiata nella cura dell'atto artigianale, meccanico eppure umanissimo (le mani supremamente femminili di Agatha che confezionano i dolci di Mendl,  a cui è affidato il vero trigger salvifico della storia); il rinomato assillo nel mostrare le famiglie disfunzionali qui giunge all'apice: per ogni protagonista sono direttamente assenti, ognuno appare un adorabile orfano, nato da se stesso, swayambhu si direbbe in sanscrito, appellattivo di Shiva come di Ganesha, il dio dell'innocenza (vedi punti successivi); anche qui ascoltiamo il canto epico di un personaggio carismatico, descritto nella caduta e nella resurrezione (dai Tenenbaum a Steve Zissou a Fantastic Mr.Fox); l'adorazione per l'eloquio forbito, tappeto sonoro perfetto per l'esplosione dei tempi comici devastanti del turpiloquio o di atti improvvisamente violenti (le parolacce della Blanchett in Life Acquatic, la memorabile coltellata di Pagoda nei Tenenbaum, qui la serie di pugni in faccia da cartone animato più le numerose contraddizioni tra tono aulico e imprecazioni di Monsieur Gustave H.); il rapporto buffo e commovente di fedeltà tra padroni e servitori/maggiordomi, spesso di derivazione indiana (Un treno per Darjeeling, forse il meno riuscito, è tutto un omaggio a quella comicità spiazzante nella cortesia che solo chi conosce l'India sa riconoscere come dato peculiare di quel popolo), che rende finalmente umana la complicatezza della dialettica servo/padrone; le meravigliose simmetrie di cui abbiamo già parlato; la poesia della scoperta adolescenziale dell'amore, di cui parleremo tra poco.



Il film è insieme Fantastic Mr.Fox e Moonrise Kingdom (vero gioiello poetico andersoniano).
Omaggio e rivisitazione dei film precedenti, che certo si consacra nella carrellata a metà film di tutti i grandi attori-feticcio del Nostro: una ilare cavalcata, ritmata da tempi comici da manuale, a cui il pubblico sembra quasi rispondere con una ola da stadio. Un omaggio ammiccante all'interno del film,  in cui ovviamente spicca  per spessore epico Bill Murray (per il quale confessiamo un debole quasi erotico): al termine della progressione di memorabili cameo,  appare quasi come un rarefatto supereroe, una sorta di redentore dell'eleganza.



3) Agatha




Dichiaro anche qui un tallone d'Achille emotivo: sarà forse perché in uno dei rarissimi scambi dialettici con Zero (quello nella camera da letto quando lui gli rivela di aver rubato il quadro), mi è apparsa specchio d'acqua della fanciulla che ho la benedizione d'aver sposato, ma non credo che nessun altro personaggio cinematografico femminile mi abbia mai conquistato come Agatha.
Un incanto senza precedenti.
Archetipo particolarissimo e per questo universale, correlativo oggettivo in carne ed ossa della fanciulla di cui tutti ci siamo innamorati, è la quintessenza delle adorabili qualità femminili: giocosa, fiera, saggia ed innocente. Traboccante gentilezza  nei gesti quasi inconsci, eppure coraggiosa fino alla vittoria nelle imprese più ardite.
Grazia e fierezza, un talismano invincibile contro la stupida volgarità del mondo moderno
Quando appare sulla giostra commossa dalla dedica di Zero, il suo volto è icona dello stupore vibrante, la scoperta dell'amore.



Il finale (Dio benedica Anderson per non averlo mostrato) in cui verrà inghiottita dalla crudeltà insensata della vita è poesia assoluta: era dai tempi in cui, nella tarda adolescenza, piangevamo sui versi di Laforgue recitati da Carmelo Bene, che non riconoscevamo in un autore tanta profonda comprensione dell'animo femminile.
Scioglierebbe il cuore in una cascata di nettare anche a Rudolf Hess.
Almeno credo.

4) Un inno alla purezza

E qui arriviamo a uno dei più irriducibili punti di forza del film, e di tutta l'opera di Anderson.
Non solo nel capolavoro dedicato al tema, il già citato Moonrise Kingdom, ma in quasi tutti i suoi film, l'autore mostra con grande pudore l'impaccio adolescenziale nei confronti della tremante scoperta del sesso.
Un tema stilisticamente così personale da meritarsi una riuscita parodia, la quale, benché si conceda come l'ispirazione richiedeva qualche volgarità, è sicuramente centrata.



C'è una scena celebre nei Tenenbaum  (film che nonostante l'entusiasmo che stiamo profondendo per l'ultima fatica del regista per noi comunque detiene ancora la palma di vetta andersoniana) in cui viene narrata la gioventù immorale di Margot, sulle note perfette di  Judy is a Punk dei Ramones, in un crescendo irrefrenabile di ambientazioni paradossali e variazioni viziose.


Eppure, nonostante l'apparente scabrosità dei contenuti, ciò che rimane è il senso vivo, vitale, giocoso di una giovinezza vorace, inquieta, dissipata, ma che mantiene comunque alta la fiamma di una ricerca innocente.
Nell'impaccio da adorabile disadattata di Margot, c'è comunque la sete di emozioni autentiche, come motore della folle corsa alla dissolutezza.
L'ho spesso accostata, questa sequenza, a una concettualmente simile, ma tragicamente disperante, tratta dal film Le regole dell'attrazione, ispirato a un romanzo di Bret Easton Ellis.
Qui, lo svuotamento interiore che deriva dalla consumazione famelica e squallida dei rapporti fisici, è raccontato nell'ebbrezza di un videoclip in soggettiva, per poi svelare il desolante smarrimento della propria identità, nella ripetizione meccanica e ormai inerte di un piacere morto.
Come solo nel Il meraviglioso mondo di Amèlie, l'esperienza del sesso è esposta nel suo animale affanno verso un momento svanente, di cui la protagonista femminile è giocosa e distaccata testimone.
Ciò che conquista nei film di Anderson è la celebrazione, sotterranea e proprio per questa profonda, dell'innocenza, elemento fondante della personalità che nessun comportamento può macchiare o rimuovere fino in fondo.
Non a caso, in un momento chiave del film, Monsieur Gustave H. dice più o meno a Zero che il segreto della bellezza di Agatha è la sua purezza.
Un magnete che desta un'attrazione innocente, tutto l'opposto che gli sguardi complici da moderno corteggiamento, spesso preludio a squallidi momenti di intimità fugace, come già sancito da T.S. Eliot ne La Terra Desolata.

5) Racconta il dolore con la gioia

Questo dono dell'innocenza che trasfigura poeticamente il dolore d'esistere è la chiave segreta della narrazione. Ricordiamoci che il film nasce da una visita in un cimitero, e che la miccia della rocambolesca narrazione è l'evidenza della sofferenza. Lo scrittore, voce narrante, si accosta al vecchio protagonista, e scopre dalla sua commossa voce la straordinaria storia, proprio perché colpito dalla sua composta  e soffrente solitudine.
Il dato di fatto è che questo film fantasmagorico, colorato, avventuroso, in realtà racconta un brevissimo periodo di una vita passata nel lutto e nel dolore.
E la scelta di non narrarci il crudele rovesciamento degli eventi, lasciandoci alla visione di Agatha e Zero, uniti da Monsieur Gustave, al culmine della felicità fiabesca in un paesaggio dalla bellezza quasi onirica, rende ancora più commovente e intimo il sentimento del dolore.



In un film traboccante di dettagli e dialoghi brillanti, è proprio il non mostrato, il non detto a svelarne la bellezza.
L'happy ending dell'avventurosa vicenda è solo il preludio a un dramma incombente, anzi a una serie di cataclismi emotivi. L'ingiustizia, umana ed esistenziale, si avventerà sul sogno perfetto, conquistato con la forza dell'amore e del coraggio.
A quel punto, gloria e ricchezza appariranno nella loro effimera inutilità, polvere di sogni andati, utili solo a mantenere il tempio della felicità perduta, dove meditare dignitosamente sul dolore di vivere.
Una suprema, crudele ironia, che però conserva intatta la magia poetica e lo stupore dell'esistenza.
Una mistica dei sentimenti e del potere della bellezza che nasce come un fiore stupendo nel deserto della sofferenza universale.


6) Un atto d'amore

Il film, al termine di diverse visioni, si configura come un maestoso atto d'amore.
In primo luogo alla cultura mitteleuropea dei primi del Novecento, a quel mondo decadente e fascinoso, al suo tesoro smarrito di galateo d'antan, di formalità stucchevoli eppur seducenti, di orchestrate schermaglie tra reciproche e lambiccate cortesie. Un tentativo, anche'esso, nobile e disperato di riscrivere una realtà su cui incombeva la spada di Damocle della tragedia storica, nel gioco combinato di parole alate e gesti concertati.
Per le circostanze paradossali della vita, che l'opera ben mostra, nello stesso periodo in cui mi sono innamorato del film, ho intrapreso un tedioso impiego che mi pone a contatto con ambienti simili a quelli descritti nel film, in un ruolo affine al protagonista. Lo scontro quotidiano con la volgarità, la maleducazione e, soprattutto, l'orripilante assenza di senso estetico dell'attuale alta società, rende ancora più incantevole e magico il mondo descritto da Anderson, pur scontando la inevitabile idealizzazione letteraria che l'autore vi proietta.
Appunto la letteratura.
Il libro è un mastodontico omaggio alla creazione artistica, alla letteratura in primis.


La menzione cifrata di Zweig, autore simbolo di quel periodo e di un certo modo di vivere la letteratura, è solo la punta dell'iceberg della complessa costruzione del regista.
L'inizio di questo canto alla vita è in un cimitero.
Per chi è cresciuto vicino al Cimitero Acattolico di Roma, dove riposano Keats e Shelley e Pasolini trovò ispirazione memorabile omaggiando Gramsci, è facile riconoscersi nella ragazza che si reca a leggere sulla tomba dello scrittore prediletto, sembra quasi di sentire le note di Cemetary Gates dei The Smiths.
Il film è un racconto nel racconto: la storia, cosi vivida e reale, esasperata cromaticamente dalla lente caleidoscopica del ricordo, è filtrata sia da un racconto letterario che, ancor prima, da una memoria, intima dolente e personalissima. Rielaborata dalla labilità della memoria e dalle lenti deformanti della trasfigurazione letteraria.
Ma proprio per questo, Gran Budapest Hotel è una grande celebrazione del potere trasfigurativo dell'arte nei confronti del male di vivere.


Soprattutto, come un bambino che si balocca con i suoi giochi inventati, l'opera è uno straordinario atto d'amore nei confronti di se stesso.
Come, appunto, Flaubert con Madame Bovary, Wes Anderson ci rivela alla fine del film: "Monsieur Gustave c'èst moi".
Come lui, il regista è un baluardo di un mondo che non c'è più, e che già non c'era più da vent'anni prima che egli indossasse per noi i panni seducenti del concierge artistico, invitandoci a prendere alloggio nelle pittoresche camere della sua fantasia.
Divenuto l'icona del gusto vintage (no, non lo chiamerò hipster, vuol dire un'altra cosa!), in realtà Anderson ci parla sempre di un mondo, di una visione del mondo, già sfumata quando lui era bambino.
Si pensi alle meravigliose colonne sonore dei suoi film, alle voci di Nico e Bowie, al mito di Costeau e all'India degli hippy. Un abilissimo trucco che non può che destare la nostra sincera empatia.
La fuga dall'opprimente bruttezza contemporanea non nel già corrotto panorama mentale della propria infanzia, ma nella ricostruzione magica di un passato mai vissuto e per questo abitato come propria dimora nel labirinto fatato dell'immaginazione.
Un trucco, certamente.
Ma anch'egli , proprio come il protagonista del film, è riuscito a "coltivarne l'illusione con una grazia meravigliosa".








mercoledì 28 maggio 2014

Io sto con gli indiani. Purtroppo.

In perfetta linea con lo spirito antisettario di questo blog, dichiarato fin dal nome, il primo post relativo al calcio che io, fiero laziale, vi pubblico è di un romanista.
Non solo perché Dario Di Napoli è un vecchio amico, ma anche perché è uno dei pochissimi sostenitori, di tifo trattando, onesti che conosco. Uno dei pochi che il 27 maggio 2013 non ha fatto finta di nulla, ad esempio. E lo dimostra anche in queste righe: orgoglioso dei suoi colori ma leale nel riconoscere la grandezza su sponde avverse.
Inoltre, ha messo su carta sostanzialmente le stesse riflessioni che avrei proposto io.
Non solo l'analogia karmica con il goal di Juventus-Lazio 0-1 del 2000.
Soprattutto, il disprezzo per i bambolotti da copertina.
Buona Lettura

Al cinema ho sempre fatto il tifo per gli indiani. Sporchi, poveri, brutti, armati di frecce, mandati allo sbaraglio contro i fucili dei conquistatori. Non è stata una scelta ragionata ma di puro istinto. Vuoi mettere il fascino di un apache o di un cherokee che si lancia urlando in sella a un cavallo contro un battaglione di gente ben vestita e pettinata di tutto punto ?
Ho fatto la stessa scelta anche per quanto riguarda un’altra delle grandi passioni della mia vita: il calcio. Tifo da trent'anni per una squadra che nella sua storia ha racimolato la miseria di tre campionati e perso numerose battaglie contro i conquistatori, che nella maggior parte dei casi indossavano una divisa a strisce. Ho mantenuto e continuo a mantenere questa coerenza anche quando ho assistito a partite che non vedevano protagonista la mia squadra del cuore. Di conseguenza sabato sera non potevo certo esimermi dal sostenere la causa dell’Atletico Madrid, un pugno di indiani messi insieme e capitanati dal grande capo Diego Pablo Simeone che si apprestava ad affrontare i più grandi conquistatori che la Storia del Calcio ricordi: il Real Madrid, la compagine dei reali di Spagna, un esercito di fenomeni pagati a peso d’oro e il cui calciatore più celebre è un vanitoso modello dal fisico scolpito prestato ai campi verdi.
In realtà un pezzetto del mio cuore pendeva a favore dell’uomo seduto sulla panchina dei conquistatori: un uomo di cui ancora conservo il ricordo mentre, con la sua maglia numero 4, tesseva trame perfette insieme al Divino, ad Agostino, a Toninho e a Marazico in uno dei centrocampi (mi si perdoni il neologismo) tecnicamente più forti che abbia mai visto calcare un campo di calcio. Un uomo che ha donato entrambe le ginocchia alla causa della mia squadra del mio cuore. Un uomo che però, in seguito, ha scelto di stare dalla parte dei più forti, dei più ricchi, dei più fortunati.


Quindi, caro Carletto, non volermene ma ho sperato sinceramente che la decima (o la desima, come odiosamente hanno continuato a ripetere tutti i giornalisti d’Italia) ti andasse di traverso.
Il grande capo Simeone invece dovrei odiarlo per ragioni puramente campanilistiche, ma non ci riesco. Non ci sono mai riuscito. Fin quando l’ho visto giocare ho sempre pensato che fosse uno di quei calciatori di cui mi sarei innamorato se l’avessi visto indossare la maglia della mia squadra. Mediano instancabile ma dai piedi tutt’altro che disprezzabili, imparai a stimarlo in occasione di un derby di quindici anni fa quando, dopo aver ricevuto uno sputo in faccia da Accì Zago, invece di andare a piagnucolare dall’arbitro incassò lo sfregio senza colpo ferire e continuò a giocare come se non fosse successo nulla. E a fine partita disse semplicemente: “Sono cose di campo, possono succedere, ma poi finisce lì”. Un uomo vero. Uno dei pochi che, da indiano, è riuscito a prendersi la rivincita contro i conquistatori strisciati che due anni prima gli avevano letteralmente scippato uno scudetto. E la rivincita se l’andò a prendere a casa loro, sotto i loro occhi, con un colpo di testa perfetto nell’angolo basso alla destra del portiere.


Un uomo che si è fatto da solo, un uomo con los huevos (come ama dire lui stesso) contro uno dei santoni storici del calcio moderno. Lo scenario perfetto. Degno di un finale di Sergio Leone. Clint Eastwood contro Lee Van Cleef. E la sfida inizia nel stesso della celebre scena de Il buono, il brutto e il cattivo. All’insegna della paura e, perché no, del rispetto.
D’altronde il Real non può e non deve fallire. E’ questa l’occasione giusta per conquistare la decima Coppa dei Campioni. Contro i rivali concittadini. Nella tribuna autorità è presente un giocatore in rappresentanza di ogni squadra che ha alzato le precedenti nove Coppe. Nel sentire il nome di Raùl Gonzalez Blanco sento distintamente sussultare la mia anima di amante del calcio. Che fenomeno era quel ragazzo. Indossava la maglia degli odiati conquistatori blancos, ma vederlo giocare mi rimetteva in pace con il mondo.
Dal canto suo l’Atletico Madrid ha poco da perdere. Si è ritrovato in finale quasi per caso, e ha appena vinto, da outsider, il campionato spagnolo dopo diciotto anni. Inoltre il suo giocatore più rappresentativo, il centravanti Diego Costa, sta male e scende in campo solo per onor di firma, tant’è che dopo soli otto minuti Simeone deve toglierlo dal campo. Però i colchoneros tengono il campo alla grande. Corti, aggressivi, pronti a ripartire. Il Real prova a pungere, ma senza far male. Una palla buona ce l’ha Gareth Bale, il gallese pagato 110 (centodieci !) milioni di euro che però davanti a Courtouis calcia a lato con un esternaccio sinistro indegno dei trenta euro (!) che percepisce ogni minuto della sua vita. Visto che i conquistatori non sparano, allora tanto vale provare a scagliare qualche freccia. E una di queste, al minuto trentasei, va a segno nel più beffardo dei modi. Un pallone innocuo scodellato in mezzo all’area viene colpito di testa da Godin, onesto difensore centrale che una settimana prima, sempre di testa, ha segnato contro il Barcellona il gol decisivo per il titolo. Una palla lenta, che nella maggior parte dei casi finirebbe tra le mani del portiere. Solo che il portiere dei blancos, Iker Casillas, campione del mondo e bicampione d’Europa in carica, non si trova tra i pali. Come Walter Zenga quella maledetta notte del 3 luglio del 90 è uscito senza motivo apparente quel tanto da ritrovarsi uccellato dal pallonetto che si deposita lentamente in fondo al sacco. Gli indiani vincono. E si va all’intervallo. E io inizio a coltivare la speranza che, in fondo, il calcio, a volte riesca anche a essere uno sport giusto. Che premi gli sforzi di chi costruisce le squadre non a suon di milioni, ma a suon di uomini veri. E che Eupalla, il dio del pallone magistralmente inventato da Gianni Brera, ogni tanto imiti il suo più illustre collega e consenta a Davide di battere Golia.


Il grande Gianni Brera, penna formidabile
Nel secondo tempo sembra che i minuti scorrano più in fretta. E soprattutto sembra che i calciatori di Simeone siano di più rispetto a quelli di Ancelotti. Gabi, il capitano, riscrive la definizione di uomo ovunque. Lo si può vedere in difesa, a centrocampo, in attacco, coadiuvato dal fedele scudiero Juanfran. Godin sembra un baluardo insormontabile, commovente come Franco Baresi nella finale di Usa ’94. Il tempo passa, e il sogno inizia a prendere corpo. A dieci minuti dalla fine però, l’esercito dei conquistatori inizia l’arrembaggio. Gli indiani restano in trincea e non escono più. Manca poco, però, basta poco. Arriva finalmente il novantesimo. Tutti gli occhi dei presenti allo stadio Da Luz si girano verso il tabellone luminoso alzato dal quarto uomo. Cinque minuti di recupero. Tanti. Troppi per degli indiani stremati da una resistenza così strenua. Ne passa uno. Poi due. Poi tre. Il Real ottiene un calcio d’angolo. Il pallone arriva alto poco prima del limite dell’area di rigore. Un uomo in maglia bianca si alza più di tutti e colpisce in modo perfetto. Non è Cristiano Ronaldo, la star più attesa che fino a questo momento ha combinato pochino. Non è Benzema, che nel frattempo è uscito.

Sergio Ramos vs Val Kilmer

 E’ Sergio Ramos, difensore vagamente somigliante a Val Kilmer, che con due suoi gol (di testa) ha regalato alla sua squadra la finale battendo in semifinale gli invincibili bavaresi del Bayern Monaco. La palla si infila nell’angolo basso alla destra del portiere. Ironia della sorte, è quasi la fotocopia del gol che Simeone segnò alla Juventus quattordici anni fa. La partita fondamentalmente si conclude qui, nonostante il commovente impeto del Cholo che continua a invocare a gran voce i propri tifosi. Ma ormai Eupalla ha deciso e i supplementari diventano una formalità.


Troppo ha già retto l’Atletico, ferito fisicamente e psicologicamente, e i conquistatori devono solo attendere prima di piazzare i colpi mortali. Il primo lo spara Bale, dopo cinque minuti dall’inizio del secondo overtime. Il secondo porta la firma di Marcelo, superbo terzino entrato dalla panchina, probabilmente l’uomo che con le sue accelerazioni ha portato l’ago della bilancia dalla parte dei blancos. Il terzo è un’autentica farsa, un rigore quasi inventato per consentire all’uomo copertina di questa edizione della Coppa dei Campioni di uscire dall’anonimato di una finale in cui non è mai stato protagonista. Come, del resto, in nessuna di quelle che il campione (perché di campione si tratta, intendiamoci) portoghese ha disputato.
Cristiano Ronaldo spiazza Courtouis ed esulta in modo spropositato, quasi irriverente, mostrando gli addominali e dimostrando a tutto il mondo la sua pochezza di uomo. I muscoli e l’arroganza servono ai modelli, non ai calciatori. Non a caso, il più grande interprete di questo sport era alto meno di un metro e settanta e sfoggiava una discreta pancia rotonda.
Finisce così. I conquistatori hanno battuto gli indiani. Golia ha sconfitto Davide. I milioni hanno avuto la meglio sugli uomini. Lee van Cleef ha ucciso Clint Eastwood. E io mi chiedo chi me lo ha fatto fare di appassionarmi allo sport più crudele del mondo. Meglio il cinema. Almeno fino al giorno in cui Cristiano Ronaldo non deciderà di mettersi a fare l’attore.

Dario Di Napoli

martedì 27 maggio 2014

La Principessa che amava i film horror - Intervista ad Alessio De Santa




Continua la nostra galleria di incontri con gli autori Tunué.
Come annunciato nel precedente articolo dedicato al libro (che trovate QUI), al recente Napoli Comicon abbiamo avuto il piacere di incontrare Alessio De Santa, autore assieme a Daniele Mocci e Elena Grigoli di questa arguta rivisitazione del mondo fiabesco.
E' interessante scoprire come dietro un apparente divertissement ci sia una ispirata consapevolezza culturale.



Alessio De Santa

 Sicuramente, la prima cosa che si nota è il registro parodistico, la versione umoristica dell'immaginario canonico medievale. C'è forse un ammiccamento a Games of Thrones? 

 In realtà, no, perché non ho avuto ancora il tempo di vederne una puntata! Il nostro collegamento era più con storie come Rapunzel. Essendo amici di molti disegnatori Disney, avevamo avuto la possibilità di visionare qualche preview, e ci siamo fatti incuriosire ancor prima che questo immaginario tornasse di moda. Sono passati comunque due anni e mezzo dall'inizio alla conclusione del progetto, è un libro molto lungo, 150 pagine.

 Per ogni storia ti sei ispirato a fiabe diverse, o sono tutte variazioni sullo stesso concetto? 

Sono tutte fiabe diverse della tradizione popolare europea, ma tutte variazioni sul tema. L'idea originale nasce addirittura col mio progetto di tesi, il confronto tra le fiabe occidentali e quelle Zen.



 Notevolmente interessante...

 Un confronto fatto con gli strumenti della semiotica, materia della quale sono appassionatissimo. Ho studiato quindi la fiabistica europea, la cui tradizione si diffonde ben prima della nascita della psicologia moderna, da Freud in poi...

 Che per me ha ucciso la meraviglia...

 Sono abbastanza d’accordo. Le fiabe hanno sempre un aspetto inquietante, ma non l'aspetto psicologico come lo intendiamo noi. Sono un'espressione della cultura popolare. Nella cultura di massa contemporanea possiamo trovare l'equivalente nella diffusione orizzontale di alcune serie televisive, la cui apparente banalità gli consente di raggiungere una grande parte di pubblico. Nel senso che anche il telefilm più popolare assolve al ruolo di far percepire all'adolescente che esperienze come l'innamoramento o le delusioni amorose sono in realtà esperienze condivise da tutti. Volevo dunque provare a portare nella tradizione della fiaba un po’ del linguaggio attuale.



 Da questo nasce lo spirito dissacrante... 

 Si, anche se il nostro essere dissacranti non è quello, per intenderci, alla "Shrek", in cui c'è una parodia sistematica. Noi abbiamo preferito creare delle variazioni sul tema e rompere lo schema narrativo della fiaba, soprattutto nelle aspettative sul finale.

 E' interessante notare che mentre ne "La memoria dell'acqua" (ne abbiamo parlato QUI) gli autori hanno preso uno schema horror e lo hanno inserito in uno schema fiabesco, tu hai fatto il contrario in un certo senso. Come hai lavorato alla sceneggiatura? 

 In realtà avevo iniziato a scrivere il libro come un progetto autoriale, in un secondo momento (anche per dare sicurezza agli editori, essendo la mia prima opera come sceneggiatore), ho cercato aiuto in Daniele Mocci, uno sceneggiatore espertissimo. Lui aveva già pubblicato in Francia i due volumi "Carrion" ("Il carognoso", edito da Claire De Lune), un'opera molto scura e affascinante. Il nostro metodo di lavoro è stato molto particolare. Io ho scritto i soggetti e lui le sceneggiature, rivedendo volta per volta il lavoro insieme. I colori sono dell’eccezionale Elena Grigoli.


Alla fine di ogni storia ci sono delle tavole che compongono una storia nella storia... 

 Si, un'idea che nasce dall'esigenza di creare un filo rosso che legasse il libro. Ogni fiaba sfuma in questa storia di collegamento. Un Re deve cercare sua figlia, la principessa, che è fuggita. Nel farlo incontra diversi personaggi che compaiono nel libro (spesso prima che il lettore li abbia letti, in un gioco di anticipazioni). Nel libro ci sono tre piani di lettura: il primo è la fiaba per bambini, reso immediato anche dall'approccio buffo del disegno; poi un secondo piano narrativo, più alto, in cui si parla delle storie d'amore e dei rapporti con la famiglia; e poi un terzo, una sorta di ricompensa per i lettori più consapevoli: abbiamo nascosto più di una trentina di citazioni dall'arte, dalla letteratura e dalla musica, da Neruda a Klimt.




 E' una caccia al tesoro! 

 Si, è un grande gioco.

sabato 17 maggio 2014

E tutto il resto appresso/2 - Intervista a Mauro Cao





Come promesso nei giorni precedenti, ecco la seconda intervista relativa al libro E tutto il resto appresso, sempre all'interno della galleria di autori Tunué che abbiamo incontrato al Comicon di Napoli. Dopo gli autori Alessandro e Francesca Di Virgilio (l'intervista la trovate QUI), stavolta è il turno del disegnatore Mauro CaoUna breve conversazione, sufficiente però a farci conoscere la sua grande passione per il Judo. Non solo un'arte marziale, non sono uno sport olimpico, per Mauro è soprattutto un percorso educativo.
Buona Lettura!


Vuoi raccontarci di come è nata la tua collaborazione a questo volume?
Con Francesca e Alessandro c'è grande affetto e stima reciproca. Francesca la conosco praticamente da quando era bambina. Lei ha sempre apprezzato molto i miei disegni, quindi per me è stato come veder crescere una sorella minore. Quando mi hanno inviato il soggetto, ho subito riconosciuto quanto fosse nelle mie corde. Adoro raccontare i sentimenti intimi e i movimenti del cuore. Questo non perché non sia interessato a ciò che mi circonda, ma perché ho sempre ritenuto più interessante raccontare l'interiorità. Quindi oltre al rapporto alla base che ho con entrambi, ho trovato molto bello proprio il racconto di Francesca. Mi sono sentito subito di accettare la sfida. Dal punto di vista della narrazione, non sono esattamente un "cliente facile".
Chi lavora con me sa che deve concedermi molta libertà. Una volta ricevuta la sceneggiatura, ovviamente creo lo storyboard, soprattutto per trovare il ritmo della narrazione. Francamente, non sono molto incline a rispettare tutte le indicazioni che mi vengono fornite.
Volente o nolente, aggiungo sempre del mio.





A quale progetto stai lavorando attualmente? Ha qualcosa a che fare col tuo rinomato amore per il Giappone?
Il mio amore per il Giappone non è limitato al fumetto ma si estende a tutta la cultura.
E' una passione che ho fin da bambino, e che si è sviluppata da adulto, tanto da farmi diventare, ad esempio, un maestro di judo per bambini. Sto affrontando un progetto che è, per l'appunto, un mio antico sogno: realizzare un manga su judo. L'idea non nasce come esigenza narrativa, ma proprio dal desiderio di far conoscere la bellezza di questo sport come disciplina educativa. La storia si chiamerà "The Promise", della quale sono autore anche della sceneggiatura e dei dialoghi. Verrà pubblicata dall'editore Mangasenpai che lo tradurrà in quattro lingue, giapponese comprese. Un aspetto per me molto interessante è che sono riuscito ad ottenere la collaborazione e il patrocinio di una marca di abbigliamento sportivo e da lotta, che si chiama Green Hill. E' stata una grande soddisfazione. Io mi auguro attraverso questo libro che le persone possano avvicinarsi a uno sport olimpico che non è solo bellissimo, ma educativo. In Italia, pur essendo pochi i praticanti di livello rispetto a paesi dove è molto diffuso come Giappone o Brasile, abbiamo avuto grandi campioni come Pino Maddaloni, Ylenia Scapin, Roberto Meloni, Ezio Gamba, il grande Francesco Bruyere, la Rosalba Forcinniti, Elio Verde e molti, molti altri.


venerdì 16 maggio 2014

Intervista a LRNZ riguardo "The Dark Side of the Sun" su FUMETTOLOGICA





La prima volta che sentii parlare Lorenzo Ceccotti di questo progetto credo ci fosse ancora un governo di, si fa per dire, sinistra.
In quel momento, LRNZ aveva un ruolo molto gratificante in una importante agenzia di comunicazione di Roma, tra le più ambite.
Il contratto gli garantiva uno stipendio che equivale esattamente, non è un'iperbole, a un premio di una lotteria di grande successo.
Lorenzo ha lasciato tutto, per imbarcarsi in un progetto folle: tecnicamente impossibile, senza fondi, senza prospettive di guadagno certo, anzi con la necessità di un investimento importante ed esclusivo, non solo di tempo.
La sua vita è stata sequestrata per alcuni mesi, in cui non dormiva, mangiava pochissimo, era impossibile, anche per me che ero tra i suoi migliori amici storici, contattarlo.
Vi chiederete per quale motivo, quale ricompensa, concreta o astratta, fare una scelta così sconsiderata, un suicidio professionale, uno spettacolare harakiri lavorativo.
Soldi? Abbiamo già detto di no. Gloria? Il film sarebbe difficilmente uscito nelle sale. Soddisfazione personale? I tempi tecnici strettissimi e il budget molto basso precludevano la possibilità di realizzare precisamente quello che aveva in mente.
C'era solo un motivo: raccontare la vita, tremendamente labile e poetica, di alcuni bambini, vittime innocenti di una malattia rarissima e crudele. Bambini che non possono stare alla luce del sole.
Sperando, in tutto questo sforzo immenso, di non urtare la loro sensibilità.
Magari, di strappargli un sorriso.

E per questo che sono amico di Lorenzo, non per le sue brillanti capacità intellettuali o per il suo evidente, sbalorditivo talento.
Ed è per questo che vi invito a leggere questa intervista in cui racconta questo straordinario, rocambolesco, nobile progetto, che finalmente approderà nelle sale cinematografiche.

Per ricompensa, LRNZ è stato visitato dall'Inconscio Collettivo che gli ha recato in dono una delle più belle rappresentazione dell'archetipo della Grande Madre.

Morning Glory

Che Ella possa benedirlo con la Sua Grazia.
 Se lo merita.


P.S.
Del film LRNZ aveva già parlato con Mauro Uzzeo QUI.
Noi lo abbiamo già intervistato QUI e QUI, .
L' intervista odierna, questa QUI è, forse, quella a cui tengo di più.


lunedì 12 maggio 2014

E tutto il resto appresso/1 - Intervista ad Alessandro e Francesca Di Virgilio


Continuiamo la nostra carrellata di autori Tunué con gli sceneggiatori Alessandro Francesca Di Virgilio, autori del volume recentemente uscito E tutto il resto appresso. Una storia straziante e introspettiva, la cui lettura è alleviata dalla freschezza di un segno dalle evidenti suggestioni giapponesi.
Nei prossimi giorni pubblicheremo l'intervista al disegnatore Mauro Cao.



Prima domanda, quasi obbligatoria: una collaborazione fra padre e figlia per una storia che parla di intimo dolore. E' la prima volta che collaborate insieme?

ALESSANDRO Si. La collaborazione è nata quasi per caso. Francesca ha un talento naturale per la narrativa, cosa che a me manca, per questo dico sempre scherzosamente che scrivo sceneggiature così non devo narrare, ma posso raccontare attraverso i dialoghi diretti. Mi stanco molto a scrivere le descrizioni. Nella sceneggiatura me la posso cavare con brevi descrizioni tecniche che non arrivano al lettore...

Diciamo che accolli la fatica al disegnatore...

ALESSANDRO Esattamente!

FRANCESCA In realtà, già avevamo collaborato insieme, per Storytellers, sempre della Tunué. Un progetto in cui gli sceneggiatori avrebbero dovuto scrivere brevi racconti. Quindi, proprio per ciò ha detto prima, il "suo" racconto l'ho scritto io.

ALESSANDRO In questo caso, come dicevo, la collaborazione è nata spontaneamente. La storia risale a circa 5 anni fa. Francesca aveva appena scritto l'incipit di questo racconto, venne in cucina (la parte della casa che è sempre più "viva") e ce lo lesse. Le sue sorelle minori scoppiarono subito in lacrime, a me piacque molto il modo con cui aveva narrato la storia. Le proposi, dunque, un adattamento a fumetti da proporre alla Tunué, che è la sua casa editrice preferita, e soprattutto a Mauro Cao, che è il suo autore prediletto, tra loro c'è una vicendevole adorazione...

FRANCESCA Platonica, ovviamente!


ALESSANDRO A livello tecnico, l'impianto della sceneggiatura è mia, ma lei ho collaborato molto ai dialoghi..

FRANCESCA Si, il fumetto è come se fosse tratto dal diario della ragazza...è il racconto del dolore di un lutto improvviso...

Spero vivamente che non sia una storia autobiografica!

FRANCESCA Assolutamente, no!

E come ti è venuta in mente allora?

FRANCESCA Non so, forse ho avuto una depressione adolescenziale...avevo desiderio di creare una storia che colpisse...

ALESSANDRO Questa è la particolarità del racconto.  La protagonista si trova inizialmente in una situazione ideale per una ragazza della sua età: post-adolescente, vive in una città non sua, scopre l'amore...e improvvisamente incontra la cosa peggiore che le potesse capitare, l'impatto improvviso con la morte.
Quindi, l'interesse è proprio nell' esplorare come una ragazza poteva sopravvivere a un trauma del genere.

Francesca, abbiamo detto di Mauro Cao, ci sono altri autori a cui ti ispiri?

FRANCESCA A me piace molto leggere. Secondo me chi è un lettore appassionato non ha nemmeno un autore di riferimento: basta che sia scritto su carta e si possa sfogliare. Chiaramente ispirazione non è imitazione, ma preferisco seguire la mia ispirazione originale.
Non ho una grande esperienza nei fumetti, è legata al ritorno di mio padre alla scrittura di sceneggiature, altrimenti fondamentalmente sono una lettrice di narrativa. Mi ispiro anche alle persone che incontro, non solo ai libri che leggo, alle esperienze che poi provo a rielaborare nella scrittura.

Alessandro di Virgilio


Alessandro, appunto, tu hai una carriera precedente molto variegata (da Il Giornalino a Splatter) che hai interrotto per un periodo. Quando è nato il desiderio di tornare a scrivere?

ALESSANDRO Cominciai a scrivere,, grazie a Giorgio Pedrazzi della Scuola di Fumetto di Napoli. Nel 1986, mi iscrissi, convinto di saper disegnare! Ma mi resi conto molto presto che non era il mio campo...ma grazie a Giorgio, scoprii la sceneggiatura. Dunque, iniziai, appunto con Splatter e altre pubblicazioni. Nel corso degli anni, in conseguenza dei vari impegni lavorativi e familiari, mi sono allontanato spontaneamente, devo dire in maniera indolore, dalla scrittura. A un certo punto però, pur avendo una splendida famiglia ed una moglie che continuo ad amare come il primo giorno, c'era qualcosa che mi mancava, a cui non sapevo dare un nome. Era l'atto creativo dello scrivere. Quindi mi sono rimesso in gioco, i primi a contattarmi sono stati quelli di Beccogiallo con La Grande Guerra, per proseguire con varie collaborazioni fino appunto alla Tunué.

Da quel momento non hai più smesso...

ALESSANDRO E non ho più nessuna intenzione di farlo!


mercoledì 7 maggio 2014

La Principessa che amava i film horror


Questo post è solo un'anticipazione di un'intervista che pubblicheremo la prossima settimana al disegnatore Alessio De Santa, a ridosso della pubblicazione del libro.

Il libro, realizzato assieme a Daniele Mocci e Elena Grigoli,  è composto da otto variazioni umoristiche sul tema classico delle avventure di una principessa dentro e fuori il proprio castello.
L'intento non è solo parodistico. Certo, il libro induce continuamente al sorriso e spesso strappa risate, come si suol dire, "intelligenti". Ma, oltre la superficie della battuta immediata, della deformazione comica, del tratto grottesco, affiora un messaggio più sottile.
Palese è la metafora della principessa del castello: per affrontare la vita dobbiamo uscire dal nostro reticolato protetto di abitudini e proiezioni mentali.
Inoltre, il gioco narrativo è molto più sofisticato della semplice parodia delle fiabe.
In tutta l'opera sono disseminate, più o meno nascoste, una serie di raffinate citazioni  dal mondo dell'arte, del cinema e della letteratura, tanti piccoli easter eggs che, oltre a rendere la lettura più stimolante, donano la misura della consapevolezza culturale degli autori.
Una lettura che lascia intravedere intuizioni molto interessanti da parte degli autori.
Quello che potrebbe apparire un mero divertissement ha in realtà una struttura non semplice, consentendo al lettore acuto diverse e complementari chiavi di lettura.

Nell'area Kids del  Comicon  è stato organizzato un gioco dedicato al libro, con tema l'incoronazione della principessa, la meta e il compimento delle otto variazioni.

Questo è il 'personale omaggio di Tony Sandoval per l'occasione.


Un immagine che vale più di tante parole.



domenica 4 maggio 2014

TUTTI POSSONO FARE FUMETTI - Daniele Bonomo al Comicon

Come terzo autore incontrato allo stand Tunué, oggi vi parlerò di Daniele Gud Bonomo.
Molto presto vi racconteremo una bellissima esperienza vissuta insieme durante una gita toscana, per adesso concentriamoci sulle attività del Napoli Comicon 2014.



Daniele Gud non è solo un affermato autore di fumetti, insegnante da 13 anni alla Scuola Internazionale di Comics di Roma, che può vantare al suo attivo prestigiose collaborazioni come quella con Dacia Maraini per "La notte dei giocattoli",  la stesura di importanti saggi critici come quello su "Will Eisner - il fumetto come arte sequenziale" o la presenza in trasmissioni televisive seguitissime (in qualità di vignettista in tempo reale) come "Masterchef".
E' soprattutto una delle persone più garbate e positive che possiate incontrare ad una fiera di fumetto (non perché al di fuori di esse diventi improvvisamente pessimista e scorbutico!).

In questa edizione del Napoli Comicon 2014 si è diviso tra differenti attività.
Tra le altre:  la presenza allo stand Tunué (casa editrice con cui collabora da anni) per le sessioni di dediche, un laboratorio di disegno per bambini nell'angolo Comicon Kids (della cui importanza e della cui intuizione parla QUI con Paolo Campana di Bloggokin) e i divertenti ring con altri fumettisti.
Si tratta di veri e proprio scontri su un ring appositamente installato nel centro del Padiglione Editori, in cui diverse coppie di disegnatori si sono dovute confrontare in un esercizio di improvvisazione, provando a realizzare istantaneamente gli spunti dello sceneggiatore/arbitro dell'incontro.
A questo punto, non posso esimermi dal menzionare la conduzione  di Mauro Uzzeo, particolarmente vivace, interattiva ma soprattutto sadica nei confronti dei malcapitati Werther Dell'Edera e Claudio Calia, costretti a dover disegnare Kyashan che scende in campo a favore del movimento No-TAV.
Daniele si è confrontato con Giorgio Pontrelli, con il quale condivide una nuova avventura, il progetto Skeleton Monster (del quale abbiamo parlato QUI).
L'ultimo libro di Daniele è "Tutti possono fare i fumetti", un testo agile e divertente che riesce però a veicolare in maniera semplice ed efficace concetti importanti, altrove espressi con macchinosa serietà.
Anni e anni di insegnamento, e di studio di maestri come il citato Eisner, sono sintetizzati con felice grazia creativa in questo breve manuale.
Un libro perfetto per chi volesse avvicinare amici estranei o diffidenti nei confronti del fumetto, in grado di descrivere, in maniera sorridente, la peculiarità e il fascino della nona arte.
Ne parleremo ancora molto presto.

sabato 3 maggio 2014

"La memoria dell'acqua" di Reynès e Vernay




 


Proseguiamo il nostro reportage dallo stand Tunué con uno dei libri più apprezzati degli ultimi mesi.

Premiato lo scorso anno a Lucca col Gran Guinigi, candidato quest'anno al Premio Andersen della Fiera di Bologna, il volume di cui vogliamo parlare non è solo un libro per ragazzi.
Coppia nell'arte come nella vita, i francesi Mathieu Reynès e Valérie Vernay partono da spunti classici della letteratura d'avventura per rivelare l'esistenza di dolenti meccanismi interiori.
Niente a che vedere con i suggestivi e controversi esperimenti di Matsaru Emoto.
“La memoria dell’acqua” è un libro dallo sviluppo narrativo calibrato sapientemente: dall’iniziale intimismo, dosato fino al livello immediatamente precedente alla stucchevolezza, fino all’esplosione furiosa di elementi magico-soprannaturali, resa plausibile proprio dal lento crescendo della sceneggiatura.
Tutto è sfumatura, accenno, intuizione.
Anche in questo caso tornano elementi ben conosciuti della narrazione popolare e di genere: donne di buona volontà abbandonate da mariti scapestrati, inconfessabili segreti di famiglia, leggende nere che gravano come innominabili maledizioni su un villaggio, anziani e scorbutici guardiani del faro, bambine che svelano verità sepolte animate dall’inguaribile curiosità e dalla vivace incoscienza dell’infanzia. Tutto è pero reso con una freschezza espositiva che rende intenso e toccante il disvelarsi dei colpi di scena, pur quelli facilmente prevedibili.
In questo, oltre gli evidenti pregi grafici, grande impatto narrativo ha l’uso del colore, veicolo efficace per rendere i continui cambi di atmosfera che scandiscono la narrazione incrociata.
Siamo nel solco di una tradizione fumettistica solida come quella francese, l’originalità non risiede nei contenuti ma nell’affascinante gioco stilistico.
Una delle doti principali dell’opera coincide con quello che potrebbe apparire il suo punto debole: nonostante molto sia già visto o intuibile, la storia riesce comunque ad emozionare.
L’ordito della trama regge la tensione protratta fin dalle prime pagine, mutando nel fiabesco meccanismi di tensione rodati fino alla noia nel genere horror.
Un libro degno di una lettura attenta e ponderata.