martedì 24 giugno 2014

THE ROLLING STONES A ROMA: il Massimo del Circo!

Dichiaro subito che non posseggo nei confronti della vasta discografia dei Rolling Stones (pur conoscendola da anni) quella competenza maniacalmente filologica che posso vantare trattando di Bob Dylan, di certo Bowie o delle opere italiane di Mozart.
Questo forse mi consente uno sguardo distaccato e affidabile sul gigantesco evento del concerto al Circo Massimo.

Aveva ragione, come spesso, Massimo Palma (alla cui viva intelligenza già tributammo omaggio QUI).
Mi riferisco a QUESTO articolo, che all'epoca destò fastidio in molti devoti del culto stonesiano.
Perché è presto detto.




Il comodo fascino del Male

Chi scrive non ha simpatia alcuna per il diavolo.
Ma non per buonismo o superstizione. All'opposto, proprio per ribellione e anticonformismo.
Lungi dalla falsità del mito romantico post-miltoniano che vede in Satana il grande ribelle, per cui tutti dovremmo simpatizzare, non amo il diavolo proprio perché non amo il Potere.
E, come le Scritture rivelano, egli è il Principe di questo mondo.
Basta aprire la finestra per accorgersene.
E a me non piace stare con la maggioranza, preferisco l'opposizione.

Forse per questo non ho mai adorato le pietre rotolanti, pur studiandole col rispetto che la loro grandezza negativa pretende.
Non entro nemmeno nel merito dell'accostamento con The Beatles.
A livello musicale, basta confrontare la leggerezza giocosa di questa jam session che diviene sinfonia in pochi momenti:

con certo impaccio tossico testimoniato qui:

E' chiaro che il fascino che gli Stones esercitano sui loro adepti, rispetto ai bravi ragazzi di Liverpool (etichetta del tutto falsa come gli stessi rivali dichiareranno), non è certo meramente musicale.

Delle leggende viventi superstiti dal grande crepuscolo di idoli degli anni'60, gli Stones dal vivo fanno ordine a se: non sono enigmatici e stranianti come la Sfinge dylaniana, né rassicuranti come Sir Paul, né tanto meno signorili e seducenti come il galantuomo Cohen.
Ancora più criptico è il loro arcano, nel loro esporsi artificialmente come perennemente uguali a se stessi.

La consueta catabasi nella stupidità umana

Nel pacchetto del concertone ci sono tutte le maledizioni del grande evento collettivo: il tanfo di urina che permea ogni centimetro di etere nell'arco di 10 km quadrati; l'olezzo d'hashish di qualità scadente che esala fino a formare una nuvola nera, incombente sul luogo ben più minacciosa del Marchio Nero di Voldemort nel cielo; l'incrocio continuo con pupille annegate nell'alcol; la promiscuità forzata con aliti brucianti alla fragranza Peroni; il mesto spettacolo della coppia tossica che litiga (solitamente lui bestemmia, lei piange disperata); le orde di idioti che fischiano a qualsiasi cosa venga proferita dal palco; gli imbecilli che tirano bottiglie piene d'acqua nella folla, ritenendosi artefici del buonumore; l'inferno temporaneo dei bagni chimici (ecco le vere scie che inquinano il mondo e corrompono le coscienze!); decine di migliaia di sigarette ardenti agitate vorticosamente a pochi millimetri dalla tua retina; i tatuati a petto nudo che urlano versi senza senso e poi si complimentano fra di loro; i ciccioni con lo zaino in spalla che si scatenano in estasi, posseduti da sgraziate Menadi; e poi loro, i miei prediletti: quelli che comprano un biglietto attorno mediamente ai 100 euro, attendono per ore sotto al sole pomeridiano il concerto e poi, durante l'agognata esecuzione...PARLANO.
A voce alta. Dei fatti loro. Per tutto il tempo.
Nemmeno il Marchese de Sade sotto stramonio avrebbe ideato una punizione adeguata.

Logica e coerente coda dell'evento, l'assolutamente insensata gestione dei trasporti pubblici in occasione del concerto: probabilmente sono stati selezionati in tutto il mondo alcuni quozienti intellettivi in zona Heisenberg per deliberare la chiusura di ben due su tre delle linee metro della Capitale.
Risultato: 75mila persone che invadono come zombie le vie circostanti, una sorta di esodo freak, verso la fermata metro più vicina, col rischio Heysel a ogni arrivo di treno sulla banchina.
Il trionfo dell'arbitrio: il sindaco Marino (a patto che esista, sono persuaso sia un mero ologramma) ha probabilmente scelto i suoi consulenti fra i più dispettosi dei situazionisti.



L'inversione di un simbolo invertito

Ovunque, sui muri, sugli schermi, sulle magliette, dunque sui seni prosperosi delle turiste e sui ventri ancora più prominenti dei locali, campeggia la celebre linguaccia degli Stones.
Non tutti sanno che il celeberrimo logo fu acquistato per sole 50 sterline al talentuoso studente di grafica John Pasche. Forse ancora in meno sanno che l'ispirazione del simbolo è la lingua estroflessa di Shri Mahakali: la Dea deputata, nelle scritture hindu, alla distruzione e alla consunzione delle negatività.


Quelle stesse negatività (la lussuria, l'avidità, l'ego) che gli Stones hanno per 50 anni rappresentato, incarnato, celebrato, facendone dei propri corpi, segnati dal vizio, lo stemma fiero e venerato.
Degli sfrontati Dorian Gray che espongono orgogliosi il proprio ritratto incartapecorito, custodendo in segreto la fiamma della giovinezza nello spirito e nelle opere.
Un paradosso che nemmeno l'argutissimo Oscar Wilde avrebbe potuto prevedere.
Il paradosso, come il karma della Dea impone, di venir inghiottiti e svuotati di senso dal proprio stesso successo planetario.


 La linguaccia, sensuale e oltraggiosa, appare sui poster apposta anche sulla Bocca della Verità, che testimonia silente, a poche decine di metri dal luogo dell'evento, questa gigantesca affabulazione.
Qualora la leggenda fosse veritiera, avrebbero fatto bene Mick. Keith & co. a non imitare Gregory Peck in Vacanze Romane: non avremmo avuto possibilità di riascoltare il riff di Jumpin' Jack Flash, o vedere Jagger agitare i suoi scheletrici artigli, divorati dall'inflessibile giudizio del Vero ("the awful truth is really sad" come canta in Streets of Love).
E' tutto, infatti, una colossale, meravigliosa bugia.
La band maledetta, oltraggiosa, ribelle, diabolica allestisce un confortevole show per famiglie, per turisti ignari, per branchi di ragazzotti per bene.
Tutto nell'illusione, omertosamente custodita, di assistere alla sacra rappresentazione pagana dello spirito rock.

La ribellione formato famiglia

Per ciò che riguarda lo spettacolo (perché di ciò si tratta), nulla da dire, il juke-box funziona perfettamente, senza intoppo alcuno, la playlist scorre più affidabile di una ricerca su Spotify.
Per chi ama il rock, oggettivamente, il concerto offre un appagamento prossimo alla delizia.

Il tritatutto dell'evento di massa shakera e serve nella comoda confezione da cofanettone formato famiglia tutta l'altalenante gloria passata, cristallizzata enciclopedicamente negli aneddoti da agiografia luciferina: la rivalità fittizia con The Beatles; la morte misteriosa dell'angelo biondo Brian Jones (il "dancing child with his Chinese suit" cantato dall'amico Dylan); la maledizione nera di Altamont;  l'ispirazione sorgiva e longeva di di Exile on Main Street;  le presunte orge alla cioccolata che hanno rovinato (discutibilmente)  la reputazione di Marianne Faithfull; il ménage à trois inesistente con Angie Bowie dietro al celebre brano omonimo;  l'altrettanto improbabile intimità omosessuale tra i due sex symbol Bowie e Jagger (spettacolo eventualmente più avvincente della risibile performance di Dancin' in the Street, resa ancora più evidente in QUESTA intuizione geniale); gli imbarazzanti esperimenti funky di metà anni'70; l'incerta resurrezione negli anni'80; il ritorno in grande stile nei '90; la magniloquenza vana e inebriante dei grandi concerti negli anni 2000.

Troppo facile considerazione suggerire che Jagger abbia davvero stipulato il patto col diavolo, o che sia egli stesso il diavolo in persona ("Please, allow me to introduce myself"): in 90 minuti corre molto più di quanto abbiano fatto Cassano e Thiago Motta insieme contro la Costarica, possiede la folla con esperienza magistrale, piglio assertivo eppure familiare.
All'inizio del concerto sembra urlare troppo, sputare via i versi di Jumpin' Jack Flash, ma brano dopo brano il possesso del repertorio appare magnifico e definitivo.
Furbissimo quando prova a ripetere la profezia azzeccata in passato sulla vittoria dell'Italia ai Mondiali, Mick risulta fastidioso solo quando abusa della demenza collettiva nel far ripetere alla folla i suoi usuali versacci ("Say: Yeah! Say: Wow!" etc.).
Keith Richards all'inizio sembra l'imitazione di Johnny Deep che interpreta Jack Sparrow facendo l'imitazione di Keith Richards. E' più il tempo che solleva la chitarra scimmiottando se stesso e le sue memorabili mosse, che quello in cui effettivamente suona. Poi col tempo, il suo carisma endemico emerge, basta un cenno, un gesto spontaneo, un sorriso marcio e beffardo a far esplodere la folla: quando getta via uno spinello, appena lodato per la sua qualità, la folla esplode come allo stadio per un tacco del beniamino di casa.

I momenti più autentici del Grande Show sono forse quelli meno seguiti dal pubblico, la parentesi acustica di Richards, i duetti fra quest'ultimo e Ronnie Wood, statici e tesi al centro del palco, mentre Jagger si dimena, fauno immortale, su e giù per la lunga pedana, concedendo il prodigio del suo bacino sempre ipnotico alla folla impazzita.
Dalla tensione nervosa dei due vecchi chitarristi, come in una continua improvvisazione mancata, erompe l'energia discorde dei riff più memorabili.
E anche noi, nonostante le inamovibili resistenze critiche, pur consapevoli del grande inganno, non possiamo che concederci alla danza, di fronte alla potenza primordiale di quei quattro sporchi, devastanti, immortali accordi.

La grande inconsapevolezza della massa

Come tutti i grandi eventi ospitati nel Circo Massimo, musicali, politici o sportivi che siano, grande è il numero di spettatori per caso, di fan dell'ultima ora, o di semplici gruppettari, che conoscono solo il ritornello di Satisfaction.
Gente che viene per l'evento, non certo per il gruppo.
Desiderosa di "far parte di", nel cortocircuito illogico di così affermare la propria individualità, aderendo ad un oceanico evento di massa (ancor più clamorosa fu la dinamica nel caso del concerto dei Genesis!)
In questa mastodontica bolla di inconsapevolezza (dovuta anche allo scarso insegnamento della lingua inglese nella scuola dell'obbligo), ci ritroviamo ad assistere, nel crescendo finale del greatest hits, a due paradossi uguali e contrari: prima centinaia di padri di famiglia, col crocifisso al collo e il posto in banca, che ancheggiano sorridendo al ritmo di brani che inneggiano al satanismo e all'eroina; dopo, peggio ancora, migliaia di ribelli per una sera, di alternativi da tastiera, di rivoluzionari in serie che urlano, come furiosi canti di battaglia anarchici, versi che avrebbe potuto scrivere la loro nonna: non puoi sempre avere quello che vuoi! E nel gran finale, coronato dai fuochi d'artificio, tutti a ballare felici e scatenati, ognuno contento di urlare al cielo la propria gioia: non posso essere soddisfatto!!!

Altamente significativo, in questo senso, quello che è tra i momenti memorabili del concerto: una infuocata Gimme Shelter, momento di gloria per l'imponente corista Lisa Fisher, emoziona esteticamente per la grande resa vocale e strumentale, ma smarrisce tutto il suo potere di denuncia.
L'acme drammatico del pezzo (reso con superba teatralità da Patti Smith in QUESTA versione), in cui si denunciano i crimini di guerra che incombono sulle vittime ("Rape, Murder/ it's just a shot away") diviene occasione per sfoggiare davanti a un pubblico inconsapevole le proprie stupefacenti abilità vocali.
E così via per tutto il godibilissimo spettacolo, la contraddizione di cantare lo scherno di Respectable davanti a migliaia di persone rispettabili, o piegate ad esserlo dalla necessità di sussistenza, dalla pressione delle convenzioni sociali, non sfiora minimamente il pubblico ignaro e danzante.

Ancora una volta, il mainstream, la logica del The Show Must Go On divora, ingloba e neutralizza il potere dell'arte e della rivolta.
E questo, non a caso, è proprio il lavoro di Satana.

50 anni di The Beatles in America (anche a fumetti!)

Scrivere sui The Beatles è come scrivere su Picasso, Mozart, Churchill o la Coca-Cola.
Al di là del valore artistico, il loro incalcolabile impatto sul costume e la storia recente rendono qualsiasi possibile considerazione deformabile o vana, al cospetto della elusiva monumentalità insita nel concetto stesso di icona pop.
Tanto vale scrivere ciò che spontaneamente l'ispirazione ci detta, senza curarci di inseguire chissà quale chimerica originalità.




Approfittando delle celebrazioni per il 50 anni dell'avvento dei Fab Four in U.S.A. (per molti punto di svolta culturale pop degli anni'60), ho avuto il piacere di vedere al cinema A Hard Day's Night, lo storico mockumentary che documenta l'apice della Beatlemania.
E' l'anno chiave della svolta planetaria, l'acme di quello che nei paesi latini diverrà spirito ye-yé, il preludio al celebre incontro con il loro confessato idolo Dylan, qui raccontato con acida ironia:


Un incontro che avrà il ruolo esoterico di una vera e propria iniziazione: alla droga, all'ispirazione poetica lisergica e sfrenata, all'esplorazione infinita delle possibilità compositive.
Lennon non sarebbe stato più lo stesso, dichiarando"Dylan mostra la strada", omaggiandolo, citandolo e imitandolo nei suoi brani più grandi: da I am the Walrus a Yer Blues.
Dylan, da par suo, canzonerà  l'ingenuità di Norwegian Wood in 4th Time Around, gettando il geniale figlio di Liverpool, convinto che gli ultimi versi fossero ispirati a lui ( «I never asked for your crutch / Now don't ask for mine»,"Non ti ho mai chiesto la tua stampella / Adesso non chiedermi la mia"), in una semestrale paranoia.


Inquietante coincidenza che una delle ultime composizioni di Lennon  prima della tragica scomparsa sarà una sferzante parodia dell'ex-idolo e amico appena convertitosi al Cristianesimo.
Non potrà  non averci pensato l'anziano sommo troubadour nel suo recente, commosso omaggio

Tornando al documentario, chiarisco subito che per me The Beatles entreranno nell'Olimpo musicale solo un paio d'anni dopo, per conquistarvisi scranni dorati, senza dubbio tra quelli più in alto collocati.
Pur riconoscendo il valore di alcune gemme melodiche e il genio ritmico di brani indimenticabili (Help, Can't buy me love, la stessa title-track in questione), prima del '66 preferisco il charme sbarazzino dei The Kinks o la brillante aggressività dei The Who.
Al di là di una certa arguzia nei dialoghi e un paio di scene giustamente divenute emblematiche, il film in sé, chiaramente, è ben poca cosa.
Ciò che ci affascina è  il merito storico, certo inconsapevole, di aver colto quel momento, fascinoso e irripetibile, di impacciata transizione, di incosciente evoluzione in cui allegramente scalpitava il gruppo destinato a diventare per acclamazione la più grande rock band di tutti i tempi.
Oltre all'interesse quasi sociologico di osservare l'elaborazione a tavolino del prototipo di ogni futura (e indegna) boy band, il potere seduttivo della visione è proprio nel mancato, nel potenziale, nell'annuncio implicito e ignaro di ciò che sarà. Guccio docet: l'immortale potere dei vent'anni è "avere tutto per possibilità".
Il gruppo che ardiva al massimo desiderare di stringere la mano alla fidanzatina (I Wanna Hold your Hand), 5 anni dopo non si sarebbe certo vergognato di chiedere Why don't we do it on the Road?.
In mezzo c'era stato la rivoluzione sessuale, culturale, il movimento, il cambiamento delle menti e dei costumi: c'erano stati, appunto, The Beatles.
Ed è quella meravigliosa, leggera inconsapevolezza, del loro stesso potere e genio a venire, che c'incanta contemplando i quattro, piuttosto bruttini, ragazzi inglesi che giocano a fare i birichini, a scandalizzare, ma non troppo, i borghesi gentleman sul treno, ad ammiccare, ma non troppo, alle fan in delirio, a sfidare, ma non troppo, la goffa autorità della polizia.
Il gruppo che, tutto sommato, pochi mesi dopo avrebbe iniziato la spontanea opera alchemica che li avrebbe destinati alla Bellezza: la trasformazione giocosa in oro di qualsiasi influenza, positiva o negativa, potesse occasionalmente nutrirli. Droga, sesso, falsa conoscenza, depressione, adulterio, tutto il fango di questo mondo sarebbe divenuto nutrimento per il genio bambino di John e Paul, senza dimenticare la profondità inquieta del ricercatore George. Ringo, come già nel divertito bianco e nero del film, sarebbe rimasto l'eterno adorabile brutto anatroccolo del gruppo; vederlo agitare scioccamente la testa nelle sue smorfie ridenti, al ritmo semplice e irresistibile di quelle indimenticate canzonette, non può che farci sorridere.
Anche se quella generazione, nutrita di sogni, colori, droghe e una distorta visione dell'amore indiscriminato, costruirà un mondo non certo migliore, divenendo vittima o nel peggiore dei casi complice del marcio sistema che allegramente osteggiava, non possiamo che guardare con dolcezza e rimpianto le immagini piene di letizia dei Fab Four che corrono, inciampano su se stessi e si rotolano bambinescamente sui prati.
Il fascino dell'eterna potenzialità che giace inquieta in ogni adolescenza.



P.S.
Per chi se le fosse perse, segnalo due ottime puntate (TROVATE LA PRIMA QUI e LA SECONDA QUI) di approfondimento sul cinquantennale dei The Beatles in America, a cura di Riccardo Corbò, andate in onda su RAI TRE.
Il quale ci ha cortesemente concesso le immagini originali dei fumetti dell'epoca (alcune delle quali inedite da noi), da lui raccolti in una lunghissima ricerca, che vedono i quattro ragazzini di Liverpool come fantastici protagonisti.







Ecco la PRIMA puntata.
Ecco la SECONDA.
Guardatela, ne vale davvero la pena.










sabato 21 giugno 2014

THE DARK SIDE OF THE SUN - ovvero del commuoversi al cinema





Abbiamo già dedicato molto spazio all'attesissima, ormai insperata uscita di The Dark Side of The Sun (film di Carlo Shalom Hintermann con le animazioni di Lorenzo Ceccotti aka LRNZ) al cinema.
In particolare, QUESTA intervista in cui LRNZ ricostruisce l'avventura, toccante e rocambolesca,
Con grande piacere, ho preso atto di come tutte le riviste specializzate abbiano, per via anche dei critici più usualmente severi, concesso giudizi mediamente molto alti al film, con picchi di rara eccellenza nell'apprezzamento.
Tra le tante recensioni, quelle che ho sentito più affini al mio sentire sono QUESTA e QUESTA.
Avevo deciso di astenermi da una vera e propria recensione, visto il grande coinvolgimento emotivo che mi lega alla pellicola,  confessato apertamente QUI.
Dunque, perché ne dovrei scrivere ora?
Il motivo c'è, ed è legato non solo alla mia onestà di critico, ma ad anche ad una più ampia riflessione, che accenno soltanto e lascio ai lettori più attenti e sensibili.
Il film lo avevo visto più volte, in passato, in originale, con i sottotitoli.
Per quanto vi fossi, come detto, affezionato come ad una mia creatura (pur non avendovi avuto alcun ruolo) e ne ammirassi la disarmante nobiltà, nelle intenzioni e nel coraggio produttivo, dal punto di vista meramente estetico ero rimasto non del tutto conquistato.
Conoscevo benissimo le infinite peripezie produttive descritte da LRNZ nell'intervista sopra linkata, e quindi giustificavo ampiamente gli inevitabili difetti di realizzazione: era di per sé un miracolo che il film fosse stato girato, finito e realizzato, e agli autori andava comunque tutto il mio plauso.
Ma, per l'appunto, da critico onesto non potevo non sottolinearne la presenza.
Il mio ricordo era quello di un film toccante, a tratti straziante, con dei picchi di bellezza fotografica assoluta, delle intuizioni simboliche di altissimo livello, ma nel complesso diseguale, disunito, con dei lunghi scompensi nel ritmo della narrazione.
Anche la parte animata, come sottolineato dallo stesso LRNZ, alternava momenti di potente riuscita ad altri condannati dai tempi strettissimi a un'evidente approssimazione.


Ora, per quanto io sia un fautore dei film sottotitolati e non doppiati, devo tributare un fiore all'orgoglio patriottico della nostra tradizione di doppiatori. La cura del doppiaggio (spiccano i nomi di professionisti quali Pino Insegno e Leo Gullotta) rende il film assolutamente più accessibile, scorrevole, paradossalmente leggero.
Con mia grande sorpresa (non sono l'unico fra coloro che videro il film  in originale ad aver avuto la medesima sensazione), alla fine ho scoperto che il film non era stato tagliato rispetto alla versione che ricordavo.
Questa maggiore accessibilità, rende anche più agile la comprensione del grande impianto simbolico messo insieme da Hintermann e Ceccotti (da sempre attento studioso di archetipi) nella parte animata.
Al di là di alcune, ripeto, soluzioni facili dettate dai tempi stile mission impossible della realizzazione, alcune parti dell'animazione sono da antologia.
Non tanto per la bellezza delle immagini (che deve smaccatamente moltissimo al miglior Miyazaki), ma appunto per il colto gioco di inversione simbolica operato dagli autori.
Sapevamo che i due avevano in primo luogo collaborato su un documentario sul ghetto di Venezia (QUI la splendida sigla di apertura di LRNZ), ma non per questo ci aspettavamo una rilettura così illuminante della tradizione cabalistica.


I dialoghi tra Father Night e Morning Glory toccano vette da illuminazione gnostica.
In particolare, c'è un momento di assoluto splendore simbolico nel film: Morning Glory, ancora nella sua forma non disvelata (un loto luminoso e vorticante, il Cervello della Grazia Divina, il Sahasrara, il loto dai mille petali, dimora celestiale della Devi, materna essenza divina) deve confrontarsi con la domanda di tutti i ricercatori della verità: perché esiste il male, perché l'ingiustizia, perché dei bambini innocenti devono soffrire?
La domanda, solo nei tempi recenti, di Dostoevskij, di Camus, di Simone Weil.
La risposta (non pur ma proprio grazie alla cornice fiabesca) è la stessa di un grande maestro illuminato indiano (non a caso, una donna): quando il desiderio dei figli è puro, il Divino deve cambiare i suoi piani.
Ed ecco, dunque, la grande manifestazione finale, il crollo del velo della Maya, la compassione materna del Divino che concede la propria visione, come nel XXXIII del Paradiso, ai propri figli: proprio a quelli che hanno sofferto di più, ai più innocenti e dolenti, e nonostante tutto gioiosi.
E noi ci ritroviamo in una sala cinematografica piena di amici a commuoverci per un film che sappiamo quasi a memoria.
E, miracolo ancora più grande, dopo la visione di un film straziante, doloroso, che mostra impietosamente la crudeltà dell'esistenza, a ritrovarci sorridenti ed estatici, con gli occhi traboccanti di gratitudine e letizia.
Il potere della Bellezza:  trasmutare alchemicamente il dolore in conoscenza.
Grazie Carlo, grazie Lorenzo.

p.s.
fatevi un regalo, ecco la lista dei cinema dove vederlo, fino a mercoledi.
Non dite che non avete tempo, nulla è più urgente della bellezza e del puro amore.



mercoledì 11 giugno 2014

L'Inverno della Civetta

«L’inverno della civetta è cominciato. Era un inverno ballerino in quella città di mare spazzata dai venti di mistral, uno di quegli inverni dove il caldo e il freddo si alternano senza soluzione di continuità. La nebbia verde saliva dal mare e offuscava le menti, il vento urlava e si rischiava facilmente di perdere la direzione del cammino. Tutto diventava confuso e le strade non erano più quelle che ti aspettavi».
R.Amal Serena



Amal ritratta da Marco Corona

Questo è indubbiamente un post atipico.
Ho in cantiere da mesi un'analisi comparata tra lo stile letterario di Puskin e il fraseggio musicale di Mozart, un'analisi dei simboli occulti nel Die Zauberflöte, un delirio sulla visione del tempo in Bowie e Baudelaire, in Dylan e Fitzgerald.
E invece oggi vi parlo di QUESTO.
Non solo perché conosco Amal, la cantante che potete ammirare in tutta la sua scapigliata potenza, ormai da anni, e la considero una forza incontenibile della natura.
Di una natura aspra, selvaggia ma non priva di carisma.
Soprattutto, perché dietro l'oltraggio sonoro di questo brano (onestamente intitolato Amaro), c'è un elemento alchemico raro, rarissimo, quasi da ritenere leggendario per la sua disperante irreperibilità: un'ispirazione autentica.



E' chiaro, non è esattamente il mio genere.
Ma, come scrissi di getto dopo il primo ascolto, Amal ha una voce di brace che sembra saper estrarre il magma del furore, nascosto nei nervi di ognuno, tirarlo a lucido con una scartavetrata di follia e restituircelo sputato come una gemma di catrame.
Anche il testo è di Amal, èd è scaturito spontaneo come una colata di lava (per citare sempre Dylan sulle strofe di Like a Rolling Stone). 
Del resto, anche l'immaginario del disco che vi stiamo segnalando, è una scintilla ardente della sua vulcanica creatività.




il progetto L'Inverno della Civetta  ha già attratto l'attenzione della stampa specializzata (tra i tanti articoli segnaliamo QUESTO e soprattutto QUESTO), credo fondamentalmente per la natura collettiva che lo orienta.
In un'epoca di frammentazione morale, divisioni post-ideologiche, desolati solipsismi, al di là di gusti e generi, ci sentiamo di salutare con gesto benedicente un collettivo di artisti che si uniscano in un disegno comune.
Un'intera città, la sempre musicalmente feconda Genova, si è unita  in un gioioso amplesso artistico per partorire questa creatura bizzarra eppure fascinosa.
L'ispiratore è stato Mattia Cominotto (chi ascoltava i Meganoidi se lo ricorda bene), ma triplice è la madre di questa stagione di sapienza (traducendo simbolicamente il nome): le etichette Taxi Driver Records e DreaminGorilla Records e il Greenfog Studio.
Per chi si chiedesse cosa c'entri il cenno simbolico alla sapienza,  guarda un pò, mannaggiaaAmal, dopo l'articolo su Berlino Zoo Station di Massimo Palma, mi tocca ricitare l'odiato Hegel sul mio blog:
"Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere fatto il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Ciò che il concetto insegna, la storia mostra appunto che è necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo." (tratto dai da me osteggiatissimi Lineamenti di Filosofia del Diritto).
A parte che presto cancellerò la doppia macchia hegeliana con tre recensioni ispirate a Spinoza,  SchopenhauerNietzsche, in realtà la citazione non è peregrina.
Se filosofia è amore della verità, l'arte ne è disciplina sorella, essendo il Bello specchio del Vero (per ciò che ci riguarda).
In questo caso, non ascolto questo genere di musica, vengo da tutt'altre esperienze e percorsi.
Ma ho rispetto e stima per chi, in un paese di chiacchieroni ipercritici e sfaticati, FA LE COSE.
E' da progetti come questo (parlo di spirito e di entusiasmo, di esempio operativo) che può rinascere qualche fiorellino nel deserto culturale attuale.
E poi, chi cita  Andrej Tarkovskij  (nella fattispecie alcuni dialoghi da Stalker), e riesce a farlo degnamente, merita tutta la mia approvazione.
Prego, ascoltare:



Ecco.
Questo brano fatelo sentire ogni mattina, al posto delle preghierine imparate a memoria, in ogni classe delle elementari.
Poi, fra 10 anni, potremmo parlare di rinascita culturale in Italia.

mercoledì 4 giugno 2014

MORRISSEY, ovvero il fascino irresistibile dell'errore




PREMESSA

Questo delirio notturno è solo un appunto rispetto alle infinite considerazioni che potremmo dedicare a una delle personalità più complesse e affascinanti della creatività contemporanea.
Ci siamo essenzialmente limitati al periodo dei The Smiths, altrimenti l'analisi avrebbe richiesto in caso di stampa l'utilizzo del corredo di lenzuola della Reggia di Caserta.
Le citazioni dai testi sono in inglese, spero che questo non comporti un problema per i lettori.
Siamo fieri comunque che queste riflessioni sanciscano il ritorno della collaborazione con LRNZ, come già nei precedenti articoli su Dylan e Bowie (QUI QUI), come illustratore grazie allo straordinario ritratto che potete ammirare sopra, 
Buona lettura!

Un odio ventennale

Se un malcapitato interlocutore avesse posto, fino a pochi mesi fa, sotto il mio sguardo furente una qualsivoglia effigie di Stephen Patrick Morrissey avrebbe assistito al più conturbante dei prodigi: dal mio petto gonfio d'ira sarebbe apparso, novello Alien, Henry Rollins in guisa d'ologramma, riferendo fedelmente le seguenti asserzioni:



Troppo potente l'originale per essere svilito in una traduzione improvvisata.
Riassumendo, Rollins dice che per lui Morrissey incarna ogni possibile aspetto orribile che un essere umano possa avere, rimpiange amaramente di non essere stato lui a dirigere il video di November spawned a Monster, poiché se ne avesse avuto l'occasione nell'ultima scena Morrissey sarebbe stato cosparso di benzina e dato alle fiamme, invita dunque il cantante britannico ad assumere un pò di vitamina C, la vita in fondo non è così male, anche se in realtà alla fine cambia idea e sostiene che invece di dargli fuoco lo prenderebbe semplicemente in giro fino a farlo urinare nei suoi pantaloni, smettendo solo nel caso Moz promettesse di non rifare mai più una cosa del genere.
Il video che ha destato queste sobrie perplessità nel compassato leader dei Black Flag è QUESTO.

Diciamo che, per come vedevo le cose fino a poco tempo fa, in realtà le affermazioni del buon vecchio Henry peccano di un eccesso di diplomazia, un tributo al politicamente corretto che francamente mi disturba e perplime.
Alla visione della copertina del The very best of Morrissey, in cui il protagonista appare nudo seduto in vasca,  le gambe pelose appoggiate sul bordo, con i piedi in primo piano ed un'ebete espressione di viscida sensualità provocatoria, beh, ho progettato seriamente di tramutarlo in uno zampirone ambulante (e si che lì avrebbe avuto ben donde nel cantare "And i now how Joan of Arc felt")
Poi però qualcosa è cambiato.
E sono qui, ancora una volta fedele all'assunto blakeano del blog, a testimoniarvi il riconoscimento delle mie errate valutazioni.

Un innamoramento maturo


Sedotto dalla irrefutabile, disarmante, miracolosa bellezza di Please, please, please let me get what i want (un'illuminazione Zen al contrario, che atterrisce nella sua intatta semplicità), ho deciso di rimuovere dalle orecchie i tappi in ghisa che mi impedivano da 4 lustri di ascoltare l'appello collettivo di miriadi di amici, un'incessante perorazione che dura dagli esami di terza media: avrei dato una chance a The Smiths.


La benedizione è che la full immersion filologica è avvenuta alle soglie del "mezzo del cammin di nostra vita", quando la cosiddetta personalità è, si fa per dire, solida e stabile. E dunque, ho potuto filtrare il potente incantesimo della voce di Moz con esperto discernimento, opporre le barriere della mia weltanschauung al richiamo di questa sirena dalla seduzione immediata e insidiosissima.
Perché, nel momento in cui vi scrivo, quella voce lamentosa, aliena, screziata da assurdi falsetti, deformata da improbabili compiacimenti virili, artefatta in un'impostazione da crooner, sospesa tra melodramma e parodia, è diventata una presenza familiare, quotidiana, irrinunciabile.
Un medicamento vitale per lenire le piaghe dell'insensato logorìo degli impegni quotidiani.
Se avessi accettato il primo invito all'ascolto a 14 anni (invece di aprire il Grande Libro della Sapienza Dylaniana), probabilmente ora invece di essere un meditante felicemente sposato, sarei il leader del Movimento LGBT vegano irredentista, in carcere per il tentato omicidio della Regina d'Inghilterra.
Perché i versi del Moz ti entrano dentro come un comandamento magico.

La necessità dell'Ombra

L'ascolto quotidiano dei The Smiths è per me un meraviglioso esercizio intellettuale, un formidabile antidoto per l'ego. Vi narro del mio personalissimo approccio non per tediarvi con uno sproloquio egoico, ma per esaltare la grandezza dell'Autore.
Dacché, prima che personaggio, cantante, icona, Morrissey è soprattutto un pregevolissimo maestro di scrittura. E ciò che mi seduce irrefrenabilmente dei suoi versi squisiti, ciò che mi conquista della sua sofisticata retorica è che per me, filosoficamente, è tutto sbagliato.
Sono rarissime le affermazioni, nelle stentoree strofe che ho memorizzato dopo pochi giorni di febbrile esplorazione sonora, che sottoscriverei. E più l'assunto è da me distante, più l'asserzione è severa, più artisticamente espugna le mie resistenze critiche.
Spezzando le manette della mente, nevvero?
Ecco ad uopo una rapida rassegna di alcuni dei miei brani prediletti accostati a frammenti delle mie convinzioni:
Strech out and wait: predico il distacco dai sensi, considero lo sdoganamento della trasgressione sessuale un enorme trucco industriale del fantomatico Sistema per annebbiare le coscienze, abbassare il livello di coscienza collettivo, disperdere energie potenti in una stanca coazione a ripetere. L'inganno dei dogmi freudiani è per me la maledizione di questo Kali Yuga. Anche schiettamente  dal punto di vista del mero piacere, quale decadenza! La promiscuità della artefatta "rivoluzione sessuale" ha prodotto generazioni di frustrati, insoddisfatti perenni proiettati verso la prossima perversione, nel vano tentativo di differire un piacere che in realtà, smarrita la spontaneità, è una condanna alla noia.
Eppure, non resisto, artisticamente, al languore poetico di questo invito all'abbandono erotico, all'irresponsabilità del piacere come unico rifugio nella vanità del tutto. Un brano in cui l'eleganza del versificare morrisseyano, accompagnato da una melodia insieme intima e antica,  raggiunge forse il suo apice: "Amid concrete and clay/ And general decay/ Nature must still find a way/ So ignore all the codes of the day/ Let your juvenile influences sway/ This way and that way/ This way and that way/ God, how sex implores you/ To let yourself lose yourself". Versi scritti nei disinibiti anni'80, tuttavia capaci di decostruire condizionamenti sociali come fossero scagliati contro l'era vittoriana dell'amato Wilde. E ancora, in conclusione: ""There is no debate, no debate, no debate/ How can you conciously contemplate/ When there's no debate, no debate?". L'abbandono all'istinto non solo come conforto della misera finitezza umana ("Let your puny body lie down, lie down"), ma come liberazione dall'assillo del pensiero.
Ask: considero la timidezza una piaga sociale da estirpare con un'educazione spartana, da temprare (come avvenne nel mio caso) nelle più crudeli periferie, affinché sorgano alti nel carattere gli stendardi dell'entusiasmo e dell'autostima. Ciò nonostante, ammiro nella lieta dolcezza di questa canzone una delle massime espressioni di felicità (nel senso di realizzazione) di quello che in un mondo giusto ed equo sarebbe il pop.
Meat is Murder: sono un chef follemente carnivoro, la cui cucina si fonda sul soffritto, lo strutto, il guanciale e il ragù in ogni forma (potete constatare QUI). Ma considero questo inno anticarnivoro una delle più potenti strumenti di persuasione dell'arte moderna. La costruzione retorica della canzone è perfetta. Posta la premessa maggiore (discutibile, ovviamente), il sillogismo si svolge con un rigore argomentativo invincibile: dopo la commozione indotta teatralmente dal verso "this beatiful creature must die", la logica stringente di "a death for no reason/ and death for no reason is murder" viene ribadita dal fermo diniego di chi si oppone all'ingiustizia: "no, no, no/ it is murder".
  Still Ill:  la mia convinzione filosofica si fonda sul riconoscimento della non-dualità, lo svelamento della povera illusione del materialismo, da cui scaturisce una concezione vitale e dinamica dell'esistenza. Ecco, appunto: "Does the body rule the mind/ Or does the mind rule the body?/ I don't know..". Qui, addirittura in questa versione magnificamente gigiona dal vivo (quella dello splendido album Rank) la propria non-conoscenza viene  urlata con sfrontatezza sbarazzina. Un'ammissione che non ha nulla di socratico, ma che inghiotte tutto nella mancanza di senso.
Ancora una volta: dissento filosoficamente, ammiro esteticamente.
Heaven knows i'm Miserable now: il titolo è sufficiente: sono ostile ad ogni relativismo, disprezzo l'auto commiserazione, preferisco la rabbia alla tristezza, il disprezzo virile a qualsiasi forma di lamentosità esistenzialista. Bene, questa canzone è praticamente divenuta il mio inno e il mio scudo, ogni mattino che mi reco al lavoro.
Death of a Disco Dancer: dedico il mio tempo libero ad attività di volontariato connesse alla meditazione, diffondendo nelle scuole di tutto il mondo il messaggio che la pace interiore è l'unica via per realizzare il sogno di Gandhi, Mandela, Martin Luther King (ne ho parlato QUI). Forse proprio per questo, adoro la coda finale del brano, lo sberleffo sardonico a tutto ciò in cui credo: "Love, Peace and Harmony/ Love, Peace and Harmony/ Oh very nice, very nice, very nice..... but maybe in the next world".
There is a light that never goes out non ho mai contemplato la possibilità del suicidio, faccio strame di ogni romanticismo...non credo ci sia bisogno nemmeno di citare i versi, essendo uno dei ritornelli più famosi degli ultimi 30 anni!

Eppure, da queste premesse diametralmente opposte, Morrissey ha scritto versi che mi potrei tatuare, nella loro potenza distruttiva di inno antisociale: dal memorabile "Burn down the Disco/ Hang the blessed D.J./Because the music that they constantly play/ IT SAYS NOTHING TO ME ABOUT MY LIFE" (Panic, ovviamente); al perfetto nihil sulla società inglese: "Pass the Pub who saps your body/ And the church who'll snatch your money" (The Queen is Dead); fino a un verso meraviglioso, davvero degno di un Oscar Wilde reincarnatosi in un punk: "Boot the grime of this world in te crotch, dear" (Sheila, take a bow). E' proprio la diversità a dettare l'empatia profonda, sono i percorsi opposti che fanno giungere alle medesime conclusioni.
Schizofrenia? Tutt'altro. L'opposto, invero.
La riconciliazione con la propria Ombra è il preludio ad una personalità integrata, Jung docet.
Ascoltando The Smiths, ogni giorno concedo la parola all'opposizione nel mio parlamento interiore, e questo garantisce l'equilibrio democratico della mia psiche.




La contraddizione come dogma e maschera

In realtà, questo specchiarmi nel mio opposto come un Narciso ubriaco, proprio ciò mi pone in assoluta sintonia con un autore la cui grandezza consiste nell'incarnare poeticamente la contraddizione.
Tratto peculiare e fondativo di tutta la carriera artistica del Nostro.
Fin dal nome del celebre gruppo. Un dandy,  misantropo, antisociale, fiero della propria diversità, altero nella sua bizzarria,  indifferente allo scandalo dei benpensanti ("And if the people stare/ Then the people stare/ Oh I really don't know and I really don't care" da Hand in Glove, il primo singolo-manifesto del gruppo)
sceglie come nome identificativo della propria band il cognome più diffuso e anonimo del proprio paese: The Smiths. Un animo aristocratico che odia i regnanti, un misantropo che ama il popolo.


Dalla parola all'azione: nella leggendaria apparizione televisiva a Tops of the Pops, Moz entrò nella memoria collettiva come il paradosso incarnato. Impugnando per tutto il tempo dell'esibizione in playback un mazzo di  gladioli agitati come una mazza ferrata, il frontman diviene il correlativo oggettivo della poetica del gruppo: la fragilità come corazza , la poesia come un'arma, la sensibilità ostentata come un oltraggio.
Paradosso uguale e contrario avverrà durante le celebri esibizioni dal vivo di Panic: durante i versi sopracitati che invitano ad impiccare il Dj, Morrissey agita il cappio danzando sulle note di un inno giocoso, nel video ufficiale si vedranno dei bambini saltare a corda al ritmo di "Hang the Dj, hang the Dj".


E' il fascino irresistibile della contraddizione, che reclama il sacrosanto diritto ontologico all'errore,  a fare di Moz un nazionalista che odia il suo Paese, un conservatore che odia la Thatcher, uno snob adorato dalla classe operaia. Un artista che non solo nelle canzoni, ma ossessivamente nelle interviste ripete: "i don't know, i really don't know", e viene seguito tuttora come un profeta e un maitre à penser.
Si potrebbe mettere una pietra tombale asserendo che si tratta di un lunatico, ed archiviare il caso.
Ma la nostra invincibile curiosità ci impone di scoprire le mille angolature di questa personalità irrisolta, gravide di intuizioni artistiche: da un lato l'apologia della fragilità adolescenziale (basti pensare a Half a Person), dall'altra la seduzione, il fascino del vandalo, del delinquente, dell'assassino (Sweet and Tender Hooligan). Addirittura, nella stessa canzone convivono la dichiarazione di disagio sociale più divertente a memoria d'uomo ("I tried living in the real world/ Instead of a shell/ But before I began/ I was bored before I even began"), la richiesta incondizionata d'amore egoistico ("Learn to love me/ Assemble the ways/ Now, today, tomorrow and always") e l'invito alla ribellione sociale, subito smentito e parodiato ("SHOPLIFTERS of the world/ Unite and take over/ SHOPLIFTERS of the world/ Hand it over").
Nel già citato capolavoro Still Ill, questo processo di argomentazione per assurdo arriva ai massimi livelli.
Il memorabile incipit "I decree today that life/ Is simply taking and not giving/ England is mine and it owes me a living", nella sua grottesca solennità,  viene rinforzato dallo splendore della pura aggressività dialettica di "Ask me why and I'll spit in your eye". Morrissey è inarrivabile nell'esprimere disprezzo, disgusto, sdegno.
Pensiamo all'incipit semplicemente epico di The Headmaster Ritual: "Belligerent ghouls/ Run Manchester schools/ Spineless swines/ Cemented minds". Versi validi per qualsiasi congrega al potere in ogni tempo e luogo.
I suoi trionfanti necrologi all'indomani della morte della Thatcher (sognata nella preghiera collettiva che chiudeva il primo disco solista) sono un manuale di testo che andrebbe messo in coda all'edizione Adelphi de L'arte di insultare di Schopenhauer.
Eppure, fu proprio lui, in una delle più grandi canzoni mai scritte sull'amore rifiutato (I know it's over, come tutte le sue vette personalissima e universale), a sancire uno dei pilastri etico-estetici che ci ispirano: "It's so easy to laugh/ It's so easy to hate/ It takes guts to be gentle and kind".
Il Male è banale, la gentilezza d'animo è rivoluzionaria.
Un'ultima considerazione, delle numerose che potremmo alternare, sulla doppia anima, aristocratica e popolare del Moz, me la dovete concedere da romano. Nel brano You have killed me, dedicato a Roma, Moz esordisce indentificandosi con Pasolini. Nella sua autobiografia, però, descrive come luogo di incantevole spontaneità, teatro di una gioventù spensierata e ridente, non le selvagge ma vitali periferie pasoliniane, bensì Piazza Euclide. I Parioli. L'epicentro dei fatti di cronaca nera che fecero dichiarare proprio a Pasolini, in polemica con Moravia, l'irrimediabilità del "mutamento antropologico": contrapponendo la crudele indifferenza dei ragazzi borghesi, esattamente di quella zona,  all'energia, amorale ma sincera, dei suoi amati ragazzi di vita.
Diverse sensibilità? Tempi cambiati? Moz è troppo colto e sensibile per cadere in trappole per turisti.
La sua coscienza dell'antinomia si rivela nell'elemento dominante dei suoi testi, in quello che Pirandello chiamava appunto il "sentimento del contrario": l'umorismo.



L'humour come grazia e redenzione

E' vero, se contiamo le occorrenze, nelle sue liriche Morrissey menziona la morte molto più di un sacerdote nella liturgia funebre (citata non a caso direttamente in Sweet and Tender Hooligan, "in the midst of life we are in debt"). E' vero, si definisce "Sorrow's native son", parla sempre di tendenze al suicidio, di rinuncia alla vita o estinzione. Questo ad un livello superficiale.
La splendida verità è che quasi tutti i suoi testi sono pervasi da humour sottilissimo, che in quanto tale, quando viene colto, esplode devastante come una gag di Buster Keaton sotto benzedrina.
E non solo in quelli dichiaratamente umoristici si trovano battute fulminanti, come Vicar in a Tutu ("It was worthwhile living a laughable life/ To set my eyes on the blistering sight/ of a Vicar in a Tutu") o Frankly, Mr.Shankly ("But sometimes I'd feel more fulfilled/ Making Christmas cards with the mentally ill").  E non ci riferiamo nemmeno alla brillante stravaganza di Bigmouth strikes again (addirittura con la voce accelerata che doppia e prende in giro simultaneamente un Moz al culmine dell'autoironia),
No, no: proprio nei brani che la massa imbecille considera deprimenti.


Spesso la bici è il veicolo dell'antieroe morrisseyano, di questo moderno Wilde camuffato nei panni goffi di Mr.Bean. Pensiamo all'inizio fantozziano di This Charming Man, anticamera dell'incontro fatidico ("Punctured bicycle/ On a hillside desolate/ Will Nature make a man of me yet?"). Ma, soprattutto, in Stop me if you think you've heard this one before: "I was delayed, I was way-laid/ An emergency stop/ I smelt the last ten seconds of life/ I crashed down on the crossbar/ And the pain was enough/ to make a shy, bald buddhist reflect/ And plan a mass-murder".
Nemmeno il Woody Allen dei bei tempi.
Spesso, le battute sono così genialmente sottili che Moz dal vivo le esplicitava, o nell'interpretazione grottesca o proprio enfatizzandole l'effetto comico. Penso ancora a Still Ill, al magistrale climax antiromantico "Under the iron bridge we kissed/ And although I ended up with sore lips...", oppure alla adorabile variazione di You've got everything now  "I never got a job...because i'm too sensible!", o, per finire, con una sequenza degna dei migliori Monty Python, all'inizio di A Rush and A Push of the Land and the Land is Ours: "I travelled to a mystical time zone/ And I missed my bed/ And I soon came home".

Non a caso la grafica Lauren Lo Prete,  rivelando un quoziente intellettivo in zona Pico della Mirandola, è stata visitata dall'intuizione definitiva: associare i testi dei The Smiths alle strisce dei Peanuts.
I risultati si annoverano tra i motivi per continuare a stare al mondo.









E dal cerchio magico di questo anello di congiunzione, tra umorismo intelligente e giocosità infantile, schiuderemo il nostro ultimo volo pindarico.

L'inalienabile diritto all'eterna adolescenza

Per quanto i primi versi della la prima canzone del primo album del gruppo (Reel around the Fountain) descrivano, con un certa ambiguità tra rimpianto e compiacimento, la perdita dell'innocenza, già in quella canzone agisce la panacea d'ogni negatività: l'ironia che con intelligenza va sfumare gli eccessi dell'età adulta (e adulterante). Il sogno romantico è subito smentito dall'amara constatazione della realtà, eppure l'effetto è salutarmente comico: "I dreamt about you last night/ And I fell out of bed twice/ You can pin and mount me like a butterfly/ But "Take me to the haven of your bed"/Was something that you never said".
Morrissey, pur nel suo sofisticato aplomb intellettuale e nella sua matura disillusione, rimane un eterno adolescente, ancora scioccato dalla tremante scoperta della pubertà.
Questo è il carisma della sua protesta, questo è il fascino del suo sguardo.
Pensiamo a quella gemma provocatoria di Nowhere Fast: "I'd like to drop my trousers to the Queen/ Every sensible child will know what this means". Appunto, ogni bambino di buon senso: saggezza e innocenza.
Le qualità su cui per tutta la vita sputerà esteriormente, sono quelle a cui ambisce interiormente.
Prima ancora che "La Regina è Morta", il Moz si ricorda che "Il Re è Nudo".
Pensiamo all'incanto di Sheila take a Bow , non per nulla ispirata al Bowie felicissimo di Kooks:




è la meraviglia dell'adolescenza la grande Musa di Moz, quel cosmo interiore di proiezioni mitiche, benedette irresponsabilità, spensieratezza liberatoria, sfrontata indifferenza verso tutto.
La già citata Heaven Knows, I'm Miserable Now, nell'apparentemente capriccioso anelito alla libertà, scoperchia l'ipocrisia della sovrastruttura sociale, nel più semplice dei "perché?", urlato come da un bimbo che pesta i piedi: "In my life/ Why do I smile/ At people who I'd much rather kick in the eye?".
Una domanda che tutti ci siamo posti, e che Moz ripropone come dilemma esistenziale, obliterando il buon senso di qualsiasi ovvia considerazione utilitaristica. La responsabilità è sacrificata volentieri sull'altare dell'autenticità. Gli fa eco ancora Still Ill, in pochi versi in cui c'è tutta la magia dei The Smiths: "And if you must go to work tomorrow/ Well, if I were you I wouldn't bother/ For there are brighter sides to life/ And I should know because I've seen them/ But not often". La protesta, il disprezzo delle convenzioni, l'invito alla bellezza, l'ironia amara.

Per questo abbiamo bisogno di una dose quotidiana dei The Smiths.
Nel soffocante tritatutto del meccanismo sociale, in questa folle cieca macchina fondata sul profitto votata all'autodistruzione in cui tutti siamo ostaggio, il giovane Moz ci ricorda il diritto all'errore, alla stonatura fuori dal coro, alla fierezza d'essere l'ingranaggio che inceppa il sistema, alla diversità proclamata a testa alta.
Rivelatori più che mai i versi  iniziali di The Boy with the Torn in His Side: "Behind the Hatred there lies/
A murderous desire for love". Ancora la contraddizione, ancora l'umorismo come sentimento del contrario, più che mai lo splendore ribelle e sofferente dell'adolescenza.
Nell'apparente frase ad effetto, nell'ennesimo paradosso wildiano, si cela il segreto più illuminante: è la sete d'amore a rendere violenti, ribelli, oltraggiosi, diversi.
Tornano in mente i versi sublimi del XVI Canto del Purgatorio dantesco, in cui ritengo si spieghi tutto.
Ma proprio della vita in generale:
"Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l'anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore."



Qualsiasi nostra esperienza, dalla più banale e prevedibile alla più folle e trasgressiva, è solo un effetto esteriore della causa primordiale: l'inconscia ricerca d'Amore.
Non a caso, nel brano forse più famoso del gruppo (How Soon is Now?, quasi un koan zen),  Morrissey il dandy, il misantropo, l'antisociale, colui che sa di essere sgradevole ("you don't have to tell me"), scioglie l'armatura dialettica nella più universale delle confessioni:
 "I am Human and I need to be Loved/ Just like everybody else does".