mercoledì 15 ottobre 2014

MORRISSEY A ROMA - il racconto del concerto



Dopo l'analisi dei testi dell'era The Smiths (QUI) e l'intervista a Mike Joyce (QUI) , ecco il racconto del primo dei due concerti romani del 2014 di Morrissey.
Buona Lettura

Divertente è tornare da una riunione di due giorni sul World Day for Inner Peace (dettagli QUI) e andare direttamente a un evento battezzato World Peace is None of Your Business!
Il concerto che sto per raccontarvi  mi è apparso come un incrocio tra una festa di compleanno a sorpresa e un convegno spontaneo tra le "best minds of my generation" (per citare un poeta di cui parleremo tra poco): all'entrata incontro decine di amici, alcuni tra i miei scrittori prediletti, eccellenze intellettuali come Massimo Palma (ne abbiamo parlato QUI) e Tuono Pettinato (QUI).
Un raduno spontaneo di menti brillanti venute al richiamo del più affascinante tra gli intellettuali sociopatici: Steven Patrick Morrissey.


Il clima raccolto da club esalta la varietà della fauna: si distinguono gli smithsiani d'annata, ormai ultra quarantenni, vistose macchie eccentriche dai riflessi mod o new wave nella folla trepidante.
Video dei Ramones e dei New York Dolls creano la giusta atmosfera elettrica, un codice di riconoscimento estetico tra gli astanti.

Morrissey sulla tomba di Johnny Ramone
I primi, il Moz li stroncò da giovane critico, ma sta pagando l'antico debito curando una loro antologia. Per ciò che riguarda i secondi, voci insistenti lo danno da ragazzo presidente del fan club; certo è che dopo le incomprensioni con Bowie durante la brevissima memorabile tournéé insieme, sostituì il "David's eyes" della sua versione (variazione dell'originale "Jagger's eyes") con "David Johansen's eyes".



Rimanendo nell'ambito, l'amore per Patti Smith è dichiarato da anni, Horses eletto a disco preferito, come consacrata dalla cover di Redondo Beach. A uno spettatore passeggero, la furia del punk potrebbe apparire in stridente contrasto con l'aplomb da dandy del Morrissey maturo. Ma indubbiamente queste icone brucianti si addicono molto più a preparare l'apparizione di un fiero misantropo antimonarchico, piuttosto che a promuovere un album imposto da una multinazionale ai propri utenti, ritagliate  nella sagoma danzante di Bono Vox, come nell'ultimo video degli U2.

                                          


Fashionably late, il Moz appare finalmente sul palco: è in forma, elegante e maturamente sensuale, in tutto il fascino della sua virile ambiguità. Molto di più rispetto alla fugace apparizione del giorno prima da Gazebo (con tutta la simpatia per Zoro, magari il titolo imparatelo la prossima volta, ha cantato una canzone una!).


L'attacco inconfondibile di The Queen is Dead apre trionfalmente le danze, mentre sullo sfondo campeggia un grottesco fotomontaggio della regina scapigliata che mostra entrambi i medi al pubblico. Ancora una volta ci dona una velenosa variazione nella risposta alla Regina che lo riconosce come "quello che non sa cantare": "And i know you, you cannot even talk!".
La band, compita nella consueta eleganza di camicia bianca e pantaloni neri, è precisa e potente, con picchi di squisita fattura tecnica negli assoli e nelle variazioni strumentali.



Ezra Pound sostituisce per una volta  Oscar Wilde sullo schermo, sicuramente per compensare l'oltraggio inferto dal nostro paese al grande poeta (e no, non mi riferisco al centro sociale fascista spacciato per luogo culturale, quella è la beffa dopo il danno). Ci sentiamo di sottoscrivere da sempre le sue parole in una recente intervista su XL: "Quando atterro sul suolo italiano sono felice, indipendentemente dalla mia volontà. Però è stata l’Italia a mettere Ezra Pound in una gabbia per settimane… Sì, una gabbia! Come punizione per essere un genio. Credo che sia stato il punto più basso della storia italiana".


Morrissey governa il palco con consumata gigioneria, delizia e tortura i fan con le sue ironiche pose da divo, raccoglie bigliettini d'amore da un fan, finge di metterseli in tasca per consegnarlo poi ad un altro, ironizza elegantemente sulla sua chiacchierata malattia e sul suo aplomb ("The Doctor says i should not smile...so i won't"), quando si chiede perché dovrebbe essere lì in quel momento,scatenando il collettivo "because we love you" dei fan, finge di trasalire: "Ah, i see".
Alla faccia di chi lo etichetta da anni come un malinconico depressone dalle tendenze suicide, Moz si impone fondamentalmente come un maestro d'umorismo. Basta un cenno teatrale, una smorfia impercettibile, una battuta accennata per indurre un effetto diuretico come il miglior Buster Keaton.
Il nuovo inno animalista The Bullfighter dies lascia presagire, come è lecito aspettarsi, la preponderanza di brani dall'ultimo, riuscito album nella scaletta.
Dalla sua recente opera, Morrissey coglierà nella serata alcuni dei brani più potenti, di cui brevemente diamo nota:
World Peace is None of your Business è un impeccabile compendio del sarcasmo antiborghese del Nostro, in cui la soavità rassicurante della voce da crooner esalta ancora di più il disprezzo per gli indifferenti, gli ignavi sociali di moraviana memoria. Versi degni di essere mandati a memoria:

"Work hard and sweetly pay your taxes
Never asking what for
Oh, you poor little fool oh, you fool

World peace is none of your business
Police will stun you with their stun guns
Or they'll disable you with tasers
That's what government's for
Oh, you poor little fool oh, you fool

World peace is none of your business
So would you kindly keep your nose out
The rich must profit and get richer
And the poor must stay poor"

"Each time you vote you support the process", è lo slogan antiistituzionale perfetto, che sintetizza nella immediatezza del pop questa stupenda digressione da anarchico reazionario di Carmelo Bene (omaggiato QUI): "Nelle aristocrazie il principe non si fa eleggere, è lui che elegge il suo popolo. In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. È la pratica certosina dell'autoinganno. Si dice che il trenta per cento sia astensionismo.
Nego, tutto è astensionismo. Sono comunque voti sprecati."


Kick the Bride Down the Aisle, invece, esplode come un violentissimo schiaffo in faccia al Mr. Darcy dell'occasione, per svegliarlo bruscamente dal sogno dell'idillio nuziale: le dolcezze della sposa sono la tagliola per una vita di schiavitù sociale e morte interiore. L'intuizione  è medesima a  quella del nostro amato Schopenhauer (per quanto la nostra esperienza lo smentisca gioiosamente): "La maggior parte degli uomini si lascia sedurre da un bel volto; infatti la natura li induce ad ammogliarsi facendo in modo che le donne mostrino a essi, tutto in una volta, il loro pieno splendore ovvero...facciano un «colpo a effetto»; e nasconde invece i molti guai che avranno in seguito: spese a non finire, preoccupazioni per i figli, un carattere bisbetico, cocciutaggini, invecchiamento e inacidimento nel giro di poco tempo, inganni, corna, capricci, attacchi isterici, amanti, diavoli e inferno. Definisco perciò il matrimonio un debito che si contrae in gioventù e si paga nella vecchiaia.". La soluzione sembra invece suggerita dal nostro odiato Sade: prendere a calci la sposa sull'altare, facendola rotolare per la navata della chiesa, la spettacolare dissacrazione del rito e della felicità borghese. Apprezziamo il gesto simbolico solo perché sappiamo che è rivolto a una istituzione putridamente ipocrita.

Neal Cassady Drops Dead  rappresenta uno stupendo omaggio al lato più autentico della beat generation (in piena delirante distorsione del termine hipster che ben presto ci condurrà all'acquisto di una Luger, come Richard Benson insegna).



Da buon letterato il Moz, nell'omaggiare Ginsberg e il suo lamento per il vero eroe della strampalata epica beatnik (di cui Dean Moriarty, il protagonista di On the Road, per ammissione di Kerouac, suo fraterno amico, è un pallido clone), rivaleggia col poeta: il ritmo ossessivo del brano esalta i giochi di parole e le rime imprevedibili con cui il cantautore costella la narrazione, fino alla retorica domanda finale:
"Victim, or life's adventurer
Which of the two are you?"

                                   
Più perplessi ci lascia Istanbul, sorta di versione in rime wildiane (suggestive ma troncate nel racconto) del filmaccio Io vi troverò.

Il concerto prosegue bello, potente, emozionante, nonostante la scaletta sia al di sotto delle grandi potenzialità dell'autore. Non ci riferiamo solo ai classici dei The Smiths (sogneremmo un concerto che iniziasse con Reel Around the Fountain e finisse con Please, Please, Please let me get what i want comprendendo l'intera produzione), ma anche alla vasta messe della carriera solistica.
Se preferirà Everyday is like a Sunday a Suedehead come classicone finale (scatenando la folla nel coro apocalittico: "COME ARMAGEDDON COME"), sicuramente, avrà inteso To Give (the reason i live) di Frankie Valli come omaggio alla canzone italiana...ma avremmo preferito vivere la sognante commozione di Now My Heart is Full, la folle frivolezza masochista di The Last of International Playboys, l'insidioso fomento di The National Front Disco, la grande fierezza di Irish Blood, English Heart, financo la malizia seducente di The More You Ignore Me, The Closer I Get.
Del tutto, incomprensibile la scelta, invece, di cantare a Roma I'm Throwing My Arms Around Paris e non You have killed me (si rifarà la seconda serata).


Acme emotivo (come da trent'anni a questa parte) è Meat is Murder, accompagnata come d'uso dall'intollerabile video documentaristico sulle crudeltà inumane a cui gli animali sono sottoposte dall'industria alimentare. Il pubblico si divide tra coloro che guardano il video con dolore e chi abbassa lo sguardo dal disgusto. Fu proprio una visione (in tv!) di un simile documentario a scioccare il bimbo Steven Morrissey e a convincerlo della scelta vegetariana: evidentemente crede nel potere rivelatorio di quello sconvolgimento emotivo. Come ci disse Mike Joyce nella nostra conversazione, il brano è sempre emozionante dal vivo, anche ora che il Moz lo rende un mero commento ideologico al video: ci dispiace che abbia sostituito uno dei suoi versi più belli, la dolente deduzione "It's death for no reason. And death for no reason is MURDER", con lo slogan secco: "KILL! EAT!/ KILL EAT...MURDER", mentre indica l'evidenza agghiacciante delle immagini.

Degli agognati brani dei The Smiths la concessione scende, dal tour precedente, da sei a quattro ma, come si suol dire con una risibile espressione, "valgono da soli il prezzo del biglietto":
How soon is Now? illumina col suo ipnotico splendore la metà del concerto, immergendo il pubblico nella sinuosa danza attorno all'eterno quesito esistenziale del presente sfuggente.
Soprattutto Asleep, un dolcissimo inno al cupio dissolvi in guisa di ninna nanna romantica: le luci si abbassano, il profilo del Moz si staglia immerso nell'oscurità, stentoreo e maestoso. Proprio come nel ritratto di LRNZ per il nostro articolo, che grazie a una serie di manovre diplomatiche degne del Cardinale Richelieu sono riuscito a far arrivare nel camerino del cantante, come degno premio della sua opera.
E delle irriducibili umanissime emozioni, della sopraffina delizia intellettuale che in meno di 90 minuti è comunque riuscito a donarci.

il ritratto di Morrissey di LRNZ



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