sabato 26 marzo 2016

Lo Stabat Mater di Pergolesi - tramutare il Dolore in Grazia #LaVinadiSaraswati


La Pietà di Michelangelo Buonarroti
Non è certa l'attribuzione dei celebri, dolenti versi dello Stabat Mater, anche se stile e atmosfera riconducono convenzionalmente alla furiosa ispirazione francescana di Jacopone da Todi.

La sequenza di orazioni (prepotentemente entrata nella liturgia) illustra con definitivo nitore uno degli aspetti preminenti dell'adorazione medievale: la contemplazione di Maria Addolorata ai piedi della Croce.
L'enfasi tragica, intrisa di solenne contrizione, è sospesa tra umanissima empatia per l'universale esperienza della maternità soffrente e riverente soggezione di fronte alla maestà del mistero divino.

Per chi, come noi, ritiene che il valore universale della figura cristica sia nella Resurrezione, trionfo dello Spirito sulla materia nella congiunzione degli opposti, la testimonianza poetica è eccezionale ma teologicamente parziale.
La potenza dei versi (degni in vero della visionarietà di Iacopone) scolpisce magnificamente nell'eterno il dolore altissimo dell'Incarnazione negata, del Dono umiliato, della Redenzione ignorata.
Ma volge lo sguardo inconsolabilmente sulla tenebra, sul peccato, sull'errore del senso di colpa.
Per chi nutre il proprio daimon del Paradiso dantesco e delle visioni di Blake, lo scenario non è compiuto.

Gesù e Maria, William Blake
Qui interviene il potere sublime della Musica Sacra, tale non in quanto appartenente a un genere irreggimentato da secoli, ma in quanto specchio eterno della Bellezza interiore.
Delle innumerevoli versioni in cui i nomi più alti della storia della composizione si sono confrontati con la sequenza (da Palestrina a Vivaldi, da Haydn a Boccherini, da Rossini a Schubert, da Liszt a Verdi, passando per Scarlatti, Donizetti e Dvorak), non possiamo (noi umili, profani ascoltatori) che indicare nello Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi la vetta del Kailash musicale.
Composta nel 1735, in prossimità della morte dell'autore (addirittura, i romantici dissero fino all'ultimo respiro), l'opera insieme rispetta e spezza la tradizione creata dal prestigioso precedente di Alessandro Scarlatti, imponendosi come una delle più memorabili applicazioni della cosiddetta Teoria degli Affetti: una visione storicamente difesa e rappresentata da Monteverdi, volta a muovere le emozioni degli ascoltatori tramite un sapiente uso retorico della composizione, enfatizzando il significato profondo del testo in una ricercata armonia musicale.

In questo caso, si trattava semplicemente di rappresentare l'icona più celebre in Occidente del dolore universale. Ma Pergolesi riesce, con la misura propria dei grandi, a bilanciare l'insopportabile dolore con tutta la leggerezza della Grazia di Maria.
Uno spartito composto di ordine e luce, tale da indurre Johann Sebastian Bach a riutilizzarlo per musicare il Salmo 51, modificandone solo il finale.

Ci sembra appropriato concludere la Settimana Santa (noi ricercatori laici, avversi ai dogmi d'ogni sorta) con l'ascolto di questa composizione immortale, in grado di sciogliere in un oceano di elevazione interiore le scorie d'eccessiva commiserazione spirituale che avrebbero potuto appesantire il testo originale.


Al termine dell'ascolto siamo convinti che anche il più cinico degli atei, commosso da tale splendore, commenterà con le parole che la leggenda attribuisce al morente Pergolesi, appena conclusa la sua opera nel giorno della sua morte, in una drammatica corsa contro il Tempo:
Finis Laus Deo.


Pergolesi ritratto da Vincenzo Roscioni



P.S.
Segnaliamo la versione cinematografica di Giovanni Bufalini, che ha registrato nella meravigliosa cornice del Duomo di Orvieto l'opera fin qui affrontata, assieme al Salve Regina dello stesso Pergolesi.
Potete vederla QUI.
Un film che con rispetto testimonia la messa in scena, in un degnissimo scenario, dell'eterno dramma spirituale: la tramutazione alchemica del Dolore in Grazia.

Buona visione!

martedì 22 marzo 2016

Michelangelo. Vita - per noi "Umano, troppo umano" #LEgidadiAtena




Le Rime michelangiolesche sono un patrimonio di bellezza poetica e dolente sapienza interiore, non ancora degnamente esplorato dal grande pubblico, oscurato dal mastodontico splendore dell'opera figurativa del genio toscano.
Un precipitato di abissale introspezione, riversato (pur con sapide concessioni al parlar domestico) nell'armoniosa cornice della convenzione petrarchista (koiné letteraria a cui aderì anche l'altro immortale genio Shakespeare, nato poche settimane dopo la scomparsa di Michelangelo in un ideale passaggio di testimone fra affrescatori dello Spirito eterno),
Versi stentorei e tremendi, dall'afflato a tratti  apocalittico, che non raramente anticipano (in forma e contenuto) la cristallina riflessione pessimistica di Leopardi, come  in QUESTI versi recitati da Vittorio Gassman o nell'eclatante, memorabile esempio che qui riportiamo:

  O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn’ opra sempr’ al fin assalta;
ben vede e ben intende chi t’esalta,
e chi t’onor’ ha l’intelletto intero.
  Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;
ché l’umid’ ombra ogni quiet’ appalta,
e dall’infima parte alla più alta
in sogno spesso porti, ov’ire spero.
  O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria a l’alma, al cor nemica,
ultimo delli afflitti e buon rimedio;
  tu rendi sana nostra carn’ inferma,
rasciughi i pianti e posi ogni fatica,
e furi a chi ben vive ogn’ira e tedio.

Sappiamo bene come  Michelangelo abbia affidato proprio alle rime la più compiuta definizione della sua poetica del non-finito:

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva

Lo Schiavo Barbuto di Michelangelo
Tutta la poetica michelangiolesca è attraversata dalla tensione dell'anima verso il Divino, soffrente perché imprigionata nella prigione della materia (come poi magnificamente espresso in scultura nel ciclo dei Prigioni).
Si tratta di tematiche cruciali nella riflessione neoplatonica, intuizioni di antica derivazione orfico-pitagorica, meditate a lungo nelle differenti, contrastanti forme della rivelazione gnostica.

Antonio Piovanelli
Poco, o quasi, di questo ritroverete nello spettacolo Michelangelo. Vita, adattamento delle Rime e delle Lettere di Antonio Piovanelli per la regia di Giacomo Andrico.
Un progetto che ha ossessivamente accompagnato Piovanelli, attore dall'esperienza straordinaria, vissuta in teatro e al cinema accanto a nomi quali Visconti, Strehler, Bellocchio, Montaldo, Ronconi e i due fratelli Bertolucci, definito da Franco Quadri un attore "grotowskiano".

Uno spettacolo la cui idea nacque sul set di Novecento, debuttando più di 40 anni fa, tramite Giuseppe  Bertolucci, nella cantina romana "l'Alberichino", la stessa sera che Benigni esordì col suo spettacolo sul personaggio di Mario Cioni.
Michelangelo. Vita è uno spettacolo generoso, suggestivo, filologicamente fedele, ma di cui non condividiamo l'interpretazione umana e filosofica del grande genio michelangiolesco.
La dialettica tra Tormento ed Estasi, come cristallizzata nel celebre romanzo di Irving Stone, è tutta sblianciata sulla bilancia della sofferenza,
C'è molto più Savonarola che Marsilio Ficino nel Michelangelo di Andrico  e Piovanelli.
Fin dall'inizio della messa in scena, essenziale eppure capace di grande suggestione, il protagonista appare in una muta contrizione su un inginocchiatoio, avvolto dai fumi delle candele e dal disordine dei suoi furiosi appunti, Solo sullo sfondo, come memorie ideali o proiezioni creative, i capolavori: la Cupola di S.Pietro e il più celebre Prigione, evidente specchio dell'artista in scena,
La prova attoriale di Antonio Piovanelli è intensa e ragguardevole per impegno, potente ad esempio quando arcua il corpo per dare carne ai versi in una vivente torsione, appunto, "michelangiolesca", ma enfatizza, a nostro modesto giudizio, solo l'aspetto "umano, troppo umano" del genio.
Comprendiamo, certo, come questo sia l'intento: mostrare non l'artista glorioso, l'illuminato artefice, ma l'uomo, l'uomo nudo nel suo dolore, nella sua miseria inconsolabile, anche negli aspetti meno nobili e seducenti del suo carattere, senza cedere nulla alla retorica agiografica.
Comprendiamo.
Ma, per l'immenso rispetto che tributiamo a uno dei più grandi artisti d'ogni tempo, la rappresentazione ci appare un ritratto limitato, benché onesto.
Come Forman enfatizzò arbitrariamente (per fini spettacolari) il volto goliardico e folle di Mozart, in questo caso è il temperamento furioso e incontentabile, rivolto spesso in pozze di nera disperazione, ad esser presentato come profilo psicologico dell'artista.
Francamente, più che Michelangelo a Firenze ci sembra di vedere Louis-Ferdinand Céline a Meudon.
Apprezziamo la volontà di essere fedeli al dato reale, l'impeccabile cura filologica (ogni parola proferita è scritta dalla penna di Michelangelo, nei versi o nelle lettere), ma mostrare colui che ha eternato la Bellezza in una luce spirituale immortale solo (quello è il punto, solo) mentre si lamenta col nipote di questioni ereditarie, si lava i piedi, si affligge perché è stato truffato, si dispera per la morte del fido servo Urbino, si strazia tra la necessaria sottomissione formale all'autorità vaticane e la fierezza umiliata dell'artista, ecco mostrare solo questo (lasciando per scontato la nobiltà, la tensione sublime, la visione pura e immortale) fa apparire il protagonista come un umarell fuori di testa.
L'effetto ricercato era quello, probabilmente, e quindi lo spettacolo è pienamente riuscito.
Michelangelo come Van Gogh e non come S.Francesco.
Certo, fedele al reale.
Ma, forse, non al vero.
Crediamo, che la grandezza michelangiolesca sia proprio (pur nella negazione del corpo come prigione dell'anima) nell'aver incarnato artisticamente la più alta dignità umana, il superamento catartico del dissidio interiore nella più alta armonia rinascimentale, anticipando le intuizioni del suo futuro gemello intellettuale William Blake.
Ci riferiamo a una poesia dal titolo certo non casuale, parlando di Michelangelo, ovvero La Divina Immagine:

La Grazia ha cuore umano;
Volto umano, Pietà;
Umana forma divina, l'Amore,
E veste umana, Pace

Lo spettacolo è in scena al Teatro India fino al 24 Marzo.
Nonostante la diversa visione della grandezza di Michelangelo Buonarroti, invitiamo comunque a non perdere l'occasione di approfondire pagine e aspetti meno noti del grande artista, resi in una tremante e umanissima interpretazione.

Ascoltare dal vivo tali versi è comunque un'imperdibile emozione.

giovedì 17 marzo 2016

Le Cardamomò - dai Balcani a Montmartre #LaVinadiSaraswati




Benché il saggio Elio (con le fidate storie tese) abbia sancito un giudizio inappellabile sulla musica balcanica  in una delle sue più riuscite creazioni recenti, benché ci siano numerosi motivi per attribuire a Il Favoloso Mondo di Amélie un'influenza nefasta quanto la cocaina a prezzo accessibile sulle nuove generazioni, per chi ha trascorso l'adolescenza inebriandosi sulle note di Goran Bregovic e Yann Tiersen (prima che divenissero il corrispettivo di nicchia di Jovanotti)
Le Cardamomò rappresentano un'oasi estetica nel deserto musicale contemporaneo.



Non è solo l'impasto sapiente di sonorità a noi care a rendere ogni ascolto dei loro brani una delizia, né la mera abilità di incarnare in maniera convincente sia una forma musicale, che una dimensione culturale (la bohème tzigana) altrimenti facili prede di stereotipi ormai consunti.


Il vero valore del quartetto, più concretamente, risiede nella sua non convenzionalità, supportata dalla fusione di diversi talenti ed influssi disparati.


Iniziamo con Antonia Harper, violinista ed interprete, in grado di evocare nel canto non solo le seducenti atmosfere della Montmartre di fin de siècle, ma anche le altezze vertiginose del canto barocco nel suo progetto parallelo Ignotae Deae (di cui parleremo presto).



Proseguiamo con Gioia di Biagio, suonatrice di organetto e glockenspiel (non fate finta di sapere cosa sia: si tratta del cosiddetto metallofono, strumento usato con sapienza da Mozart ne Il Flauto Magico e da Hendrix in Little Wing), attrice teatrale, ricercatrice musicale e spirituale dalla incontentabile curiosità.


Altro pilastro femminile del gruppo è Marta Vitalini, anche lei attrice e polistrumentista, eclettica suonatrice di organetto e percussioni.


E per finire, l'istrionico Ivan Radicioni, musicista ai fiati e alla chitarra, nonché surreale narratore dei brani più divertenti del gruppo.


Sul sito della formazione si possono vedere le testimonianze del tour in USA, che ha toccato luoghi simbolo come New Orleans, raccogliendo grande attenzione e apprezzamento.


Assistere ad uno spettacolo de Le Cardamomò equivale a immergersi in un non-luogo sospeso tra la Parigi degli chansonnier e l'Odessa dei racconti di Isaac Babel', un microcosmo sonoro in cui Jacques Prévert beve un caffè turco con Ivo Andrić al tavolo di un locale in cui Edith Piaf è appena salita sul palco dopo Vladimir  Vysockij.
Siamo davanti ad un ensemble di talenti dal raro fascino, che coniuga molteplici stimoli colti a una sincera passione per l'arte.


Non possiamo che sederci dalla parte dei loro ammiratori.



lunedì 14 marzo 2016

Il Vantone di Pasolini (da Plauto) #LEgidadiAtena

Era il 1963 quando Vittorio Gassman (galvanizzato dal grande successo come attore popolare di cinema e deciso a svecchiare la sua figura di grande attore accademico) chiese a Pier Paolo Pasolini di tradurre il Miles Gloriosus di Plauto in romanesco.




Un progetto innovativo, dal grande fascino potenziale, che purtroppo non vide mai la luce.
Non si tratta certo della pagina più importante della vastissima produzione pasoliniana, eppure lo sforzo, squisitamente letterario, del genio friulano non fu indifferente: tradurre in settenari in rima baciata dal latino al romanesco una commedia del III sec. A.C., non è proprio un esercizio da Settimana Enigmistica.
Soprattutto, l'operazione rientrava brillantemente nella reinterpretazione poetica e politica di Roma del recente autore di Accattone e Mamma Roma.


Lo spettacolo è tornato in scena al Teatro India di Roma, con un doppio omaggio che ha reso imperdibile l'edizione agli occhi degli studiosi pasoliniani.
Innanzitutto, il luogo della rappresentazione, il teatro di fronte alla cui entrata campeggia un enorme ritratto del poeta ucciso, situato esattamente di fronte al Gazometro, simbolo architettonico della Roma periferica e fatiscente, scenario (assieme al Pigneto e il Madrione) non solo dei romanzi, ma anche della vita di Pasolini.
Poche centinaia di metri, affacciato sullo stessa riva del fiume, si trova il ristorante Al Biondo Tevere, dove poco più di quarant'anni fa il genio tormentato cenò per l'ultima volta, prima di recarsi ad Ostia verso la morte, tuttora vergognosamente misteriosa.

La pietà pasoliniana di Ernest Pignon, presente anche Al Biondo Tevere.
 E, poi, la scelta di affidare la parte del vero protagonista (non il beffato soldato fanfarone, ma il servo astuto e buono Palestrione, sorta di prototipo latino di Figaro e  Sganarello) a Ninetto Davoli, il ragazzo di vita per antonomasia.
Una scelta che arricchisce la rappresentazione di diversi sottotesti: l'eterna "disperata vitalità" dei servi/sottoproletari in grado di capovolgere le ingiustizie del Potere tramite la forza spontanea della gioia d'amore (il tema della Trilogia della Vita, poi tragicamente abiurata); la maschera allegra e sensuale del giovane Ninetto dagli occhi ridenti che diviene la saggezza comicamente eversiva del riso plautino.



Dal punto di vista linguistico, è interessante (e inquietante) come il romanesco pasoliniano di appena cinquanta anni fa sia senza dubbio comprensibile, ma trapuntato di termini ormai divenuti desueti. Termini gergali, nati dalla viva fantasia popolare nel divenire quotidiano dell'immaginazione espressiva, che ora suonano come trovate letterarie, anacronismi che necessitano di note a margine.
Una nota per noi curiosa, ma che in realtà, ad un'attenta riflessione, testimonia la profezia pasoliniana sulla "omologazione culturale" e l'importanza dei dialetti come espressione di resistenza cultuale alla dominante dittatura neocapitalista.


Lo spettacolo è gradevole, fedele, mostrando l'attualità evidente dei personaggi fissi plautini, in cui si possono ritrovare, in una luce stereotipica, le eterne dinamiche relazionali delle vicende umane (QUI il trailer).
Verso la fine, il progressivo immalinconirsi dell'atmosfera, apparentemente fuori luogo considerato il fiabesco lieto fine, è giustificato dall'improvvisa apparizione di Pasolini stesso (nei suoi panni Gabriele Geri, per il resto della commedia convincente interprete del giovane amante Pleusicle).
L'autore appare fugacemente, muto e sdegnato testimone del fallimento dell'ego, di cui Il Vantone (il tronfio e prepotente Pirgopolinice) è grottesca incarnazione.

Un'occasione per rendere omaggio a una delle più importanti figure del Novecento, in una delle tante declinazioni della sua incandescente creatività, quella che detta forse la più alta empatia, poiché come egli scrisse:
"Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata.
E perché? Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata
come le parole che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato -
come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno,
e volano via con la vita.".

martedì 8 marzo 2016

SI SEDES NON IS

Gentilissimi venticinque lettori,
come annunciato altrove, ecco finalmente l'atteso rinnovamento strutturale del blog che state cortesemente seguendo.
Le molteplici collaborazioni su varie, importanti testate, più i numerosi impegni, quali presentazioni, stesure di libri e progetti di volontariato, hanno sempre più rapito attenzione da queste colonne familiari.

Ecco, dunque, il piano che abbiamo approntato per rilanciare con la vitalità che merita il nostro rifugio intellettuale.

Pubblicheremo, tendenzialmente, un articolo a settimana, seguendo diversi ambiti d'interesse (non necessariamente con equa distribuzione tra di essi), o per meglio dire, creando alcune rubriche, che ora elencheremo:

- I Sentieri di Hermes: articoli su libri od esperienze di carattere filosofico e spirituale.




- I Doni di Lakshmi: articoli su esperienze estetiche di degustazione dell'esistenza, siano esse gastronomiche, architettoniche o di viaggio.




- La Vina di Saraswati: articoli che tratteranno di musica, in particolar modo classica (della musica popolare già parliamo altrove).



- L'Egida di Atena: recensioni di carattere letterario e riflessioni su diversi ambiti della conoscenza.



Speriamo che questo nuovo spirito possa incontrare il favore di voi tutti, affezionati e pazienti lettrici e lettori.

Parafrasando uno dei Lari di questo blog: "Non so dire dove andremo, ma posso promettere che non sarà noioso"!